L'era del Ferro

Dal divano alla finish line


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Guardarsi dentro, non indietro

Il 1967 fu l’ultima stagione del Campionato del Mondo di F1 prima dell’apparizione di appendici aerodinamiche sulle vetture. Anche se l’evoluzione tecnologica aveva già ampiamente iniziato a dispiegare i suoi effetti da tempo (basti ricordare la ritrosia di Enzo Ferrari nel passare al posizionamento posteriore del propulsore), e da lì in avanti si sarebbero succedute innovazioni all’epoca inimmaginabili per tipologia e numerosità, quel passaggio storico rimane particolarmente significativo perché rende evidente in modo visivo, concreto, irrefutabile, la forza irresistibile del progresso scientifico-tecnico.

Come allora, oggi sono gli sport di endurance che stanno subendo lo stesso processo di violenta accelerazione tecnologica, sia sugli atleti sia sugli attrezzi (le scarpe nella corsa come abbiamo visto domenica a Valencia, le biciclette in generale e in particolare la parte aerodinamica nelle specialità a cronometro del ciclismo e del triathlon) e come allora ci sono persone che guardano con paura a questo fenomeno, pensando che sia in qualche modo resistibile in nome di concetti quali “l’amore per lo sport” o il “romanticismo”.

Dimenticano che la competizione, nello sport come in campo economico e come in natura (darwinaniamente) è di per sé un processo volto a rendere più efficiente il sistema. Quel che non serve viene rimosso, le opportunità di miglioramento vengono sfruttate, le innovazioni che consentono ai partecipanti di aumentare le proprie possibilità di vittoria prevalgono. Per vincere si fa tutto quello che si può, tanto da rendere necessaria una autorità di controllo affinché nessuno porti il gioco fuori dal perimetro all’interno del quale deve essere giocato. Che si tratti del corpo dell’atleta o dello strumento che utilizza.
E’ vero che solo un superficiale potrebbe avere cieca fiducia (quale ironia, d’altra parte, in un sistema fondato sulla razionalità) in un modello della realtà esclusivamente positivistico-meccanicistico, perché la scienza non può essere considerata né utilizzata come un fine in quanto tale. Perché dentro all’abitacolo, sopra una bicicletta, a calzare un paio di scarpe, c’è sempre e comunque un essere umano, e pertanto un meccanismo così complesso che per quanto bravi possiamo essere a calcolarne i valori fisiologici, mantiene una componente sfuggente alla capacità di calcolo, in quanto il nostro paradosso è di essere finiti contenendo allo stesso tempo il concetto stesso di infinito, semplicemente desiderandolo. O almeno lo speriamo, e se anche così non fosse sarebbe comunque sufficiente a renderci speciali, a renderci per l’appunto pienamente umani.

E quindi a parità di potenza, lattato, vo2max, fibre muscolari di questo o quel tipo e più ve ne vengono in mente più aggiungetene, è sempre un’incommensurabile volontà personale e individuale a fare la differenza. A volte persino non a parità, a volte persino se la fisica e la chimica dicono che è in svantaggio (ma non troppo).

Tutto ciò almeno sino a quando non avremo imparato quali sono tutte le variabili che comandano la volontà oggi non misurabili, e non avremo strumenti abbastanza potenti per computarle. Facciamo tutti il tifo perché non ci si arrivi mai davvero, del tutto. E ci perdonino tanto i professionisti che si occupano di psicometria tanto chi lavora nel campo della sociologia. Lo sappiamo bene che una scienza senza la sua metrica non è abbastanza scienza per stare al pari di quelle che si reggono sulla matematica.

Nel frattempo però, nonostante debba ammettere che non tutto è possibile spiegare e non tutto è possibile inferire pur maneggiando con la più alta maestria gli strumenti analitici, nessuno si illuda comunque di poter fermare la storia: la scienza e di conseguenza la tecnologia non verranno espunte dallo sport, nel dalla nostra vita, per fortuna. Forse il fascino dello sport sta proprio in questo precario equilibrio, tra la spinta a andare avanti e quella a guardarsi dentro, più che indietro. Quasi ci trovassimo al cospetto di un ponte tra le grandi branche della conoscenza: le scienze naturali le scienze sociali\giuridiche\economiche, le arti.

We’re humans, after all.


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La soglia non esiste

La soglia anaerobica non esiste, scegliersi un riferimento è però utile…
Dato che il tema delle differenze tra FTP, CP, soglia anaerobica e chi più ne ha più metta è sempre gettonatissimo colgo l’occasione di avere a disposizione buoni dati freschi per provare a chiarire le idee e soprattutto a usare questo concetto in modo utile.

Senza entrare nelle distinzioni accademiche tra le varie sigle (mettiamoci pure Lactate Threshold 2 e Ventilatory Threshold 2) sicuramente possiamo concordare su una definizione, ovvero che tutte queste “soglie” cercano di descrivere “il punto di massima prestazione in uno stato fisiologico quasi stabilizzato”. Se vi viene comodo pensatelo come equilibrio tra acido lattico prodotto e acido lattico smaltito anche se pure su questo aspetto ci sarebbe da distinguere (aggiungendo almeno altre due sigle, Maximal Lactate Steady State e Onset Blood Lactate Accumulation, lasciamo perdere) e non è mai abbastanza utile sottolineare il ruolo dell’accumulo di acidità locale, più che del lattato in sé.

In ogni caso, in qualunque modo decidiate di misurare, vedrete sempre una variazione pronunciata (deflessione) della variabile che avete scelto: frequenza cardiaca, lattato, cinetica del vo2max, flusso respiratorio, concentrazione di emoglobina desossidata periferica e via dicendo ma anche a seconda del metodo scelto per calcolare il valore. 

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Cadenza e ampiezza in corsa: ottimizziamoli con l’experimental design

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La ricerca della cadenza ottimale, che si parli di nuoto, ciclismo o corsa, è un argomento dibattuto che finisce quasi sempre con la conclusione “la miglior cadenza è quella selezionata dall’atleta”.

La review “Is There an Economical Running Technique? A Review of Modifiable Biomechanical Factors Affecting Running Economy (Sports Med 2016 46:793–807 DOI 10.1007/s40279-016-0474-4) sintetizza:

“Reccommending a general economical running technique should be approached with caution. Future work should focus on interdisciplinary longitudinal investigations combining RE, kinematics, kinetics, and neuromuscolar and anatomical aspects, as well as applying a synergistic approach to understanding role of kinetics” mettendo poi in rilievo questo aspetto chiave: “Running biomechanics during ground contact, particularly those related to propulsion, such as less leg extension at toe-off, larger stride angles, alignment of the ground reaction force and leg axis, and low activation of the lower limb muscles, appear to have the strongest direct links with running economy“.

Infine, soprattutto: “Inconsistent findings and limited understanding still exist for several spatiotemporal, kinematic, kinetic, and neuromuscular factors and how they relate to running economy” il che sembra un ottimo viatico per la nostra impostazione di riduzione della complessità attraverso la PCA (qui l’articolo introduttivo sulla Principal Component Analysis che invito a leggere prima di proseguire la lettura di questo) e al ricorso al giudizio soggettivo dell’atleta, dato che è poi lui che deve eseguire il gesto e, si spera, trovarsi a proprio agio, nel disegno sperimentale.

L’applicazione di un approccio multivariato può essere quindi utile per identificare la combinazione di cadenza e ampiezza più efficiente. Di seguito il lavoro svolto su un podista master (M55) con l’obiettivo di migliorare l’efficienza in corsa, prendendo come riferimento il suo debutto in maratona (Firenze 2019) con il tempo di 2h52

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Potenzialità dell’analisi multivariata per lo sport di endurance

Una metodologia dell’allenamento nello sport di endurance che si ponga l’obiettivo del miglioramento prestativo richiede necessariamente due passaggi:

  1. lo studio degli aspetti fisiologici (metabolici, neuromuscolari/biomeccanici) per la definizione di protocolli su cui la comunità scientifica sia in accordo
  2. l’applicazione all’individuo “sul campo” di tali raccomandazioni generali, e la conseguente osservazione sul tipo di risposta specifica per innescare un processo virtuoso di verifica e aggiustamento del principio dose-risposta

La rapida progressione tecnologica che rende sempre più semplice e economico misurare il comportamento degli atleti nel mondo reale (outdoor) ha fatto assumere via via più rilevanza alla performance analysis nel supporto alle decisioni del tecnico, tanto che un approccio matematico nella elaborazione dei protocolli di allenamento e delle strategie di gara (race pace) è addirittura ritenuto in certi contesti più utile di uno basato unicamente sulla misurazione di parametri fisiologici, come concluso nella review “Critical Power: Implications for Determination of VO2max and Exercise Tolerance“, pubblicata nel 2010 sulla rivista Medicine and Science in Sports and Exercise 42(10):1876-90 · February 2010.

“The measurement of changes in the P-t relationship after a training intervention is likely to be functionally more valuable than the measurement of discrete physiological constructs such as, for example, VO2max, GET/LT, or “anaerobic power”.

In sintesi dunque, come sintetizza Andrew Coggan “the best predictor of performance is performance itself” anche se probabilmente una posizione più neutra, che integri la modellizzazione matematica con la verifica dei parametri fisiologici è consigliabile quando si ha la responsabilità dei risultati di un atleta.

Inoltre, è vero che il livello funzionale dell’atleta è riassumibile in una relazione potenza-tempo, ma è anche vero che la potenza è l’espressione meccanica del costo metabolico ed è quindi condizionata non solo da aspetti puramente metabolici (immaginiamoli come il “motore”) ma anche neuromuscolari e biomeccanici (“telaio, sospensioni, gomme” per mantenere la metafora automobilistica), tecniche (pensiamo alle diverse componenti di una bicicletta, dai rapporti, alle pedivelle, ai profili ruota, per non parlare della posizione in sella, o le scarpe per quanto riguarda la corsa) e ambientali (temperatura, umidità, pressione con) con impatto sulla fisiologia (ad esempio al variare della core temperature) e sull’effetto “estrinseco” della fisiologia (ad esempio minore o maggiore velocità al variare della resistenza all’avanzamento a pari costo metabolico).

Insomma, usare indicatori sintetici sembra essere una ragionevole opportunità di tipo pratico per riuscire a manipolare le variabili in entrata (su sui abbiamo più o meno controllo) in modo da valutare l’impatto della loro variazione sul risultato: andare più veloci o andare più lontano.

Il nodo cruciale è riuscire a generare informazione utile dalla mole di dati a disposizione. Il dato infatti non è informazione di per sé, perché è sempre accompagnato da un livello più o meno elevato di rumore e bias, da cui l’importanza del pre-trattamento. Nasce dunque da questa presa d’atto il tentativo di prendere a prestito dalla chemiometria, la disciplina della chimica che usa modelli matematici per valutare e predire proprietà chimiche, fisiche, biologiche, il metodo e le tecniche di analisi multivariata (Data Analysis and Chemometrics, Paolo Oliveri, Michele Forina, 2012), da applicare al mondo dell’endurance.

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Patagonman Xtri 2019

La Patagonia è un posto in cui non si può mai essere certi di nulla. Ora sei in maniche corte ma tra cinque minuti sarai costretto ad indossare il piumino. Hai un aereo che parte alle 16:50 ma può essere spostato alle 10:37 come alle 18:45. Pensi che non ci sia nessuno in mezzo a una qualche immensa vallata priva di insediamenti e invece da una sorta di casa matta esce l’omino dei lavori in corso che gira a mano il cartello di stop e via libera.

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Trans d’Havet 2018: il senso del limite dentro la tempesta

Volevo i 5 punti della Trans d’Havet e li ho avuti, desideravo una gara dura in cui mettermi alla prova dopo 3 mesi dedicati a migliorare i miei tanti punti deboli e porto a casa un’esperienza estrema che mi restituisce allo specchio un Matteo cresciuto mentalmente e interiormente.

Potrebbe anche finire così il racconto della mia TDH 2018 ma sono state 18 ore così pazzesche che forse vale la pena di raccontarle. Ripensare ora a una delle ultime frasi che ho pronunciato prima di arrivare al traguardo, rivolgendomi al presidio della Protezione Civile al termine della discesa di Cima Marana “a mio parere non ci sono le condizioni di sicurezza per far scendere altre persone da qui”, mi fa rendere conto che ben oltre la gara ieri ho imparato il senso del limite, sfiorandolo più volte.

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Cose che devi sapere quando decidi di iscriverti al tuo primo trail da 100 km

Mi hanno chiesto quando ho deciso di passare al lato oscuro dell’ultra. La risposta è che non lo so di preciso, perché non è una scelta razionale. E’ stato puramente istintivo. Così come in una gara da 100 km con 3200 m D+ non c’è nulla di preciso, o meglio non c’è nulla di davvero preventivabile e quasi nulla di totalmente controllabile. Con 5 Ironman sulle spalle pensavo di essere più che allenato a gestire mentalmente un impegno lungo, ma correre per quasi 18 ore si è rivelato ben più arduo. Sono talmente tante le cose che sono accadute sabato al Tuscany Crossing che non so neanche da che parte cominciare a raccontare.

Cosa chiedere di più dalla vita?

Innanzi tutto non riesco a togliermi dagli occhi la bellezza totale in cui ci siamo ritrovati a correre. Conoscevo già la Val d’Orcia, su quelle strade oltre a esserci passato in svariate Mille Miglia ho pedalato e corso i supercombo pre Klagenfurt 2014 durante una trasferta di lavoro a Siena durata due mesi, ma solo ora posso dire di averla davvero vissuta. I primi 50 km da Castiglione a Montalcino passando per Bagno Vignoni, Pienza, San Quirico e Torrenieri, in una giornata di sole con il cielo completamente terso sono stati letteralmente magici. Grazie alla partenza antelucana – letteralmente – ci siamo trovati sulle strade bianche in mezzo alle colline verdi dalle creste addobbate con i cipressi in un momento in cui la luce primaverile sembrava pennellare un quadro davanti ai nostri occhi, anziché limitarsi a illuminare in modo ordinario la realtà. Ed è stato come sentirsi pienamente felici, complice una prima parte di gara molto corribile con il serbatoio delle energie ancora bello pieno.

E poi il piacere di sentire le gambe leggere e la corsa facile, su quei mangia e bevi, il passo veloce e efficace camminando sulle salite più impegnative. Tutto bene fino a Montalcino, alla base vita, arrivo della 53 km, dove mi sono concesso il lusso di un po’ di pasta in bianco e persino di indossare una maglietta pulita dopo poco più di 6h dalla partenza. Riprendere il percorso non è stato facile: molta meno gente a fare compagnia, la calura opprimente e un percorso decisamente più duro sotto il profilo altimetrico, mi hanno un po’ spento. Fortunatamente ho ritrovato la mia compagna di squadra Annalisa che, come capiterà più avanti, si è messa davanti a fare il ritmo, consentendomi di tornare vispo e efficace.

Giù verso l’abbazia di Sant’Antimo recuperando qualche posizione e poi di nuovo salita fino al ristoro di Castelnuovo dell’Abate dove un omino vestito in completo vintage brandizzato Eroica – lanina verde e panna, cappellino compreso – mi ha offerto del pane e prosciutto che ho scioccamente accettato deragliando dalla mia collaudata strategia alimentare fatta di banane, arance e coca cola. Un po’ per il caldo, un po’ per lo stomaco, fatto sta che un montante senso di nausea accompagnato a sonno si è scatenato in modo devastante appena dopo il guado del fiume Orcia, intorno al 68° km – 11 ore di gara circa -proprio mentre iniziavano quasi 6 km di salita fino al ristoro successivo. Inutile dire che mi hanno passato in tanti – penso almeno dieci – e qui ho cominciato a sognare di essere svaccato su un divanetto di vimini fronte mare, con uno spritz in mano, alternando questa visione con l’avvistamento di cani, viandanti sdraiati al margine del bosco e animaletti di vario genere, rivelatisi poi tutti invariabilmente semplici rami da me oniricamente interpretati. Stavo provando sofferenza anche solo a camminare lentissimo, privo di lucidità, senza poter fare altro che bere acqua stando attento a non peggiorare la situazione.

La perfezione della luce di primo mattino

Ho seriamente pensato di chiuderla al 73° ma dopo aver pasteggiato a banane e coca cola e con 15′ buoni seduto sono tornato in controllo della situazione e persino buon umore. Riprendendo con un buon ritmo – e recuperando qualche posizione – in direzione del Monte Amiata, ho cominciato a ragionare su quanto siano “diverse” questo tipo di gare, in cui tutte quelle cose che funzionano per durate più corte (diciamo fino a 50 km) tipo calcolare perfettamente i watt sostenibili, qui vanno decisamente a ramengo, perché il corpo reagisce in modo imprevedibile alle circostanze, che a loro volta non sono programmabili (sabato faceva caldissimo ma lo scorso anno aveva piovuto per 14 ore consecutive). Il che non significa che non si possano preparare con cura e precisione, usando gli strumenti che la scienza dello sport oggi offre, ma è cosa ben diversa da gestirle “durante”, quando oltre un certo volume percorso la componente mentale diventa prevalente.

Seduto a cercare di ritrovare il controllo della situazione: mi ritiro?

E così dopo aver riperso e riagganciato Annalisa siamo arrivati nel punto più alto del percorso intorno ai 1000 m di quota, invertendo la rotta per iniziare una lunga, e sofferta, discesa al crepuscolo. Su la frontale, su i manicotti e via, con la stanchezza a farmi inciampare nei sassi ogni tre appoggi. Quanto li ho maledetti i sassi di quel bosco, io che faccio più fatica in discesa che in salita persino da fresco, figuriamoci affrontare 4 km dopo 14 ore e mezza di gara. Sono infatti arrivato distrutto all’ultimo ristoro, km 92, con ancora 10 km davanti.

Normalmente si potrebbe dire “ok è fatta” ma arrivare al traguardo da qui è stata davvero difficile. Mi sono trovato completamente solo, a camminare in mezzo alle colline deserte su queste autostrade bianche, tagliate dal vento, soltanto con i rumori degli uccelli notturni a farmi compagnia, il Fenix 5 ormai scarico spento a 97,4 km…al cospetto di un cielo pieno di stelle e di uno spicchio di luna capace di illuminare tutto quanto. Una bellezza travolgente, una grandiosità dentro a cui perdersi, ancora una volta, che sono capace di apprezzare soltanto adesso perché in quel momento riuscivo solo a fare calcoli. Stavo procedendo a 15′ minuti al chilometro, andare avanti così avrebbe significato prolungare la fatica ancora per una eternità. E così, probabilmente motivato solo dal pensiero di poter accorciare la sofferenza mi sono messo a corricchiare, sapendo che quel trotterellare mi poteva assicurare qualcosa meglio di 6 km all’ora.

In qualche modo le gambe hanno trovato modo di sostenere quel ritmo e lentamente mi sono riportato su quelli che mi avevano superato in discesa, compresa Annalisa insperabilmente agganciata ai piedi degli ultimi 2 km di salita prima del traguardo, che abbiamo potuto tagliare insieme tanto che in classifica abbiamo lo stesso tempo. 17 ore 46 minuti e spiccioli.

Chiudo un racconto anche troppo lungo con una ultima considerazione: mi sento cambiato da questa esperienza, più consapevole, cresciuto. Sbattere la faccia contro il caldo, la sensazione di essere un piccolo insignificante puntino solo dentro a un enorme universo, non potere fare altro che limitarsi a controllare quel poco che si può controllare e avere la pazienza di lasciare che il resto si sistemi da sé, con i tempi che la natura richiede e non con quelli che noi vorremmo imporgli, la necessità di volere davvero arrivare in fondo perché ti sei preso un impegno e non esiste che non lo mantieni, la necessità – ma forse è più una imposizione ambientale – di entrare in uno stato meditativo profondo in cui smetti di fare conti, al netto delle allucinazioni, non sono cose che si possono comprare al banco del supermercato. Bisogna prendere un lungo respiro e immergersi nel sogno. Ne vale la pena.

p.s. nel week end, e non solo, ho conosciuto persone con grandissima esperienza e grandissime capacità prestative nelle ultra. Non posso far altro che ringraziarle per la saggezza che hanno voluto condividere con un novellino, che ancora una volta ha zero da insegnare e soltanto da stare in silenzio ad ascoltare. Un pensiero in particolare a Roberto, Maurizio e naturalmente alla mia socia Annalisa, sempre presenti quando i dubbi mi assalgono.

Nulla di più gratificante che arrivare in fondo a una gara difficile

 

 

 


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Applicazioni matematiche per la valutazione metabolico-meccanico-cinematica della corsa – parte 2

Nel primo articolo dedicato all’introduzione della potenza nella corsa abbiamo avuto modo di conoscere le nuove metriche che il canale “power” ci permette di calcolare. Se vi siete persi la prima puntata prima di proseguire leggete qui.

In realtà questi nuovi marker sono ciò che il sensore di potenza più o meno misura direttamente e le tracce ottenute di per sé stesse non sono molto interessanti se vogliamo capire come le componenti metaboliche, meccaniche e cinematiche del runner influenzano la prestazione.

Grazie al lavoro realizzato principalmente del celeberrimo Dottor Andrew Coggan (attualmente insegnante del corso Physiologic Basis of Human Performance presso l’università dell’Indiana), del tecnico Californiano Steve Palladino (medico specializzato in chirurgia del piede e della caviglia e ora guru nell’allenamento della specialità del cross) e del coach di San Diego Jim Vance, autore di “Running with Power”, la scienza dello sport è stata in grado nel giro di qualche anno di fornire agli allenatori una straordinaria cassetta degli attrezzi per l’acquisizione, elaborazione e correlazione di dati.

Quando ho iniziato a osservare gli scarichi dati di corse acquisite attraverso il power meter Stryd (qui il white paper relativo alla validazione del sensore) naturalmente il primo pensiero è stato quello di capire come utilizzare il dato potenza per guidare l’allenamento, esattamente come da anni avviene nel ciclismo. Questo aspetto è importante ma “guidare l’allenamento” per mezzo della potenza è soltanto l’ultimo passo di un processo che deve partire da una caratterizzazione dell’atleta. La corsa è infatti è una modalità di esercizio basato su un sistema elettro-meccanico a geometria variabile sostenuto e alimentato da diversi substrati energetici (Incalza, Allenare la Resistenza, 21 ottobre 2017 – Formazione CONI Scuola dello Sport). Essere in grado di creare un vero e proprio profilo individualizzato del runner per ogni sistema attivato ad ogni intensità di interesse mi pare una promettente prospettiva capace di rendere l’allenamento più efficace.

Andy ha cominciato a lavorare sulla scomposizione del costo metabolico della corsa da tempo, arrivando a sintetizzare i tipi di potenza partendo dall’analisi che vedete qui sotto. I dettagli tra le diverse forme di potenza (orizzontale, verticale – ovvero la cosidetta “form”, di elevazione, laterale, interna e esterna) li trovate nel post precedente.

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LA METRICA CHE FA LA RIVOLUZIONE: RUNNING EFFECTIVENESS

Insieme a questo modello Coggan ha letteralmente “inventato” il parametro Running Effectiveness, capace di descrivere quanto il runner sia efficace nel trasformare la potenza in velocità, definita come velocità su potenza, ovvero (m/s)/(W/kg) o kg/N. Perché in fondo quello che ci interessa è correre più velocemente, e non produrre più potenza. No?

Basta guardare la formula che lega velocità, RE e potenza per capire la sua forza:

Speed = RE x Power

Significa che conoscendo RE e Power siamo in grado di sapere la velocità e quindi il tempo in cui il nostro atleta chiuderà la gara.

Non solo, sapremo che a parità di potenza erogata (quindi della componente strettamente metabolica) l’atleta dovrà essere in grado di tenere agganciata una certa efficacia (che ha implicazioni più meccanico-cinematiche) per ottenere il risultato cercato. Significa in sostanza sapere dove andare a mettere le mani, dirigendo la programmazione degli allenamenti verso gli aspetti che richiedono più miglioramenti, o in aree che consentono un margine di miglioramento.

A dire la verità sarebbe più corretto dire che siamo in grado di misurare non tanto la potenza, quanto il costo metabolico della corsa, il che equivale a dire che andiamo in giro con un sensorino da 200 dollari o meno al posto di una costosa strumentazione per la misurazione degli scambi gassosi da decine di migliaia di euro.

LE METRICHE EVOLUTE

Sulle intuizioni di Coggan ha lavorato successivamente Steve (tra l’altro ogni tanto i due discutono di come sviluppare il modello e non si risparmiano anche punzecchiature circa le rispettive idee ma anche preziosi spunti come vedremo più avanti) che ha riempito la preziosa cassetta degli attrezzi che oggi possiamo portarci utilmente sul campo – o in laboratorio. Ovvero:

Potenza (più avanti definita come Stryd Power o Total Power)
Non predittiva della prestazione ma tendenzialmente se aumenta è meglio. E’ uno dei marker principali del miglioramento prestativo (più potenza a parità di tempo o pari potenza per una durata maggiore)

Rapporto potenza/peso (Power:Weight Ratio)
Permette confronto tra atleti diversi, più alto il valore maggiore il potenziale prestazionale. Come sopra è un marker di miglioramento (maggiore rapporto potenza/peso a parità di tempo o pari potenza/peso per una durata maggiore)

Running Effectiveness (Efficacia di corsa)
Quanta potenza viene tradotta in velocità – Valori ottimali >1, eccellenza da > 1,05; non significativa con variazioni di pendenza perché la salita ovviamente sopprime la velocità e viceversa la discesa la amplifica)

External Power (Potenza Esterna)
Costo della potenza verticale + potenza orizzontale (costo di frenata e accelerazione del centro di massa) +/- potenza di superamento del dislivello

Internal Power (Potenza Interna)
Costo del movimento delle braccia e delle gambe

Oscillation Power AKA Form Power (Potenza di oscillazione o Potenza di “postura” o Potenza Verticale)
Potenza verticale, ovvero il costo del rimbalzo sul terreno

Horizontal Power Ratio = Total Power – Form Power (Frazione di Potenza Orizzontale)
La componente di potenza utile al puro avanzamento longitudinale, più alto il valore più alta l’efficienza. In realtà questo marker è meglio prenderlo con le pinze. Infatti come si vede dal diagramma di Coggan è il risultato del costo di frenata (ogni volta che appoggio) e del costo della riaccelerazione (ogni volta che spingo). Se freno poco perché ho una eccellente tecnica allora devo anche riaccelerare poco. Non è vero quindi che maggiore l’HP tanto meglio. Va valutata non da sola ma insieme ai trend di altri marker.

Ground Contact Time (Tempo di contatto al suolo)
In genere valori più bassi si traducono in maggiore velocità. L’eccellenza si trova per valori <200 millesecondi

Rapporto tra potenza media e tempo di contatto al suolo (W/GCT)
In pratica ci dice quanti watt riusciamo mettere a terra nell’unità di tempo. E’ fortemente correlato in modo diretto con la velocità e buon indicatore di affaticamento. Valori più bassi indicano maggiore fatica/minore efficienza.

Leg Spring Stiffness (LSS – Stiffness muscolare)
Insieme a RE altra metrica fondamentale. E’ la quantificazione della risposta elastica dei tessuti muscolo-tendinei = velocità gratuita, più alto il valore maggiore l’efficienza. La possiamo sintetizzare come Forza ed è l’indicatore principe della capacità di resistenza all’affaticamento.

Rapporto tra Stiffness muscolare e peso (LSS/kg)
Risposta elastica normalizzata: valori ottimali tra 0.128 e 0.158 @FTP

Stride rate (cadenza)
Numero di appoggi al minuto (si usa dire che idealmente deve essere intorno ai 180 appoggi al minuto)

Stride length (ampiezza)
E’ la lunghezza del passo, ed è fortemente dipendente da lunghezza delle gambe e dalla flessibilità.

Cadenza e ampiezza dipendono dalle caratteristiche strutturali\antropometriche, dalla elasticità e forza muscolare, dalla mobilità articolare e dalla rapidità\reattività.

Cadenza e ampiezza si muovono insieme, in rapporti caratteristici per ciascun individuo, nei quali a osservare i dati sembra che sia la cadenza a guidare l’aggiustamento della corsa mano a mano che si entra nel territorio della fatica. Cioè per dirla meglio, più ci si affatica e più si riesce a mantenere costante la velocità aumentando la cadenza a fronte di una riduzione dell’ampiezza.
Penso si possa dire che è uno degli aspetti più affascinanti della corsa, trovare il rapporto ideale tra ampiezza e cadenza alle varie velocità (e gradi di stanchezza). Sul tema vale la pena di ascoltare le conferenze o leggere gli articoli del tecnico FIDAL di esperienza internazionale Piero Incalza.

Flight Time (Fase di volo)
In teoria maggiore il tempo di volo maggiore la velocità sviluppata. Quando si guardano le cose dal punto di vista delle lunghe distanza però questa uguaglianza non è rispettata, ovvero a fronte della diminuzione di stiffness e ampiezza, l’aumento della cadenza – e la diminuzione del tempo di contatto al suolo – fanno si che il tempo di volo si riduca ma non necessariamente con impatti negativi sulla velocità. C’è in sostanza una maggiore conservazione della quantità di moto…o come si suol dire “una corsa rotonda”.

ECOR
Dispendio calorico: riduzione del valore a parità di velocità significa migliore efficienza

Economy
Consumo di ossigeno: riduzione del valore a parità di velocità significa migliore efficienza. La formula per la stima del VO2max (e della percentuale di VO2max nel corso di un intera prestazione) è quella di Dijk e Van Megen, pubblicata nel libro “The Secret of Running”.

UNA PROPOSTA PER LA DEFINIZIONE DEL PROFILO METABOLICO-MECCANICO-CINETICO?

Con tutte queste belle cose a disposizione ho pensato che sarebbe stato utile riuscire a definire i valori dei marker più importanti per ogni intensità significativa, così da essere in grado di verificare i miglioramenti area per area nel corso del tempo, impostare un percorso di miglioramento controllabile e identificare come i marker stessi si muovono, da soli e/o in relazione tra loro. Per semplicità finora le acquisizioni sono fatte su tappeto, ma una volta messi su strada si sono viste correlazioni coerenti (come si vede qui comparati con un test in strada da 30′ con “buoni” solo gli ultimi 20′). I dati vengono registrati attraverso unità Stryd nel corso di un banale test incrementale a step di 0,5 km/h ogni 2′, dopo di che si ottiene una tabellina come questa:

Tabella 1

Come si vede all’aumentare del passo aumenta la potenza, come lecito aspettarsi, e con essa il rapporto potenza peso. Già qui le cose si fanno interessanti perché grazie a W/kg cominciamo a poter capire come diversi runner generano velocità usando in modo diverso le loro caratteristiche uniche.

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Tabella 2

Ad esempio si può vedere come Male 2 (cioè lo stesso della tabella 1) è più lento di 10″/km a FTP e produce meno watt rispetto a Male 1 ma ha un rapporto potenza peso più favorevole e quindi le sue potenzialità di miglioramento sono probabilmente legate a aspetti non metabolici.

Tornando alla Tabella 1, la nostra cavia migliora marginalmente la RE all’aumentare della velocità, diventa quindi più bravo a convertire la potenza in velocità. Perché? tentiamo di capirlo insieme.
Innanzitutto cominciamo a vedere un comportamento valido per tutti, ovvero che mano a mano che il passo scende la frazione di External Power diminuisce, poiché diminuisce la quota di potenza destinata al movimento verticale e nel contempo aumenta la quota che va a finire orizzontalmente (ma non scordatevi che HP è composta dal costo della frenata più il costo dell’accelerazione). E questa diminuzione di Oscillation Power trova una corrispondenza con la diminuzione del valore assoluto della oscillazione verticale. Sembra quindi che il nostro eroe alla sua miglior velocità sostenibile in una situazione fisiologica stabilizzata (parliamo di endurance ovviamente, non di velocità né mezzo fondo né fondo prolungato) trovi il suo valore di HPr a quota 77. Inoltre mano a mano che aumenta la potenza aumenta il costo del movimento di gambe e braccia, come dire che per ogni watt in più prodotto non c’è speranza di dedicare l’intero watt a un aumento di velocità.

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Tabella 3

Ma c’è chi fa meglio, il nostro MALE1 nonostante il rapporto peso/potenza leggermente inferiore riesce a sfruttare meglio i watt a sua disposizione, con una RE di 1,07 vs 1,01 e guarda caso lo 0,6% in più di Horizontal Power ratio e lo 0,6% in meno di Oscillation Power. Può quindi destinare 234 Watt per spostarsi in avanti contro i 211 di MALE2 (cioè il 10% in più contro il 9% di differenza di wattaggio totale espresso) che però corrispondono a 3,4 W/kg per entrambi! Abbiamo forse trovato la spiegazione oggettiva del concetto intuitivo di “corsa rotonda”? Davvero MALE1 riesce a correre più velocemente pur pagando lo stesso costo metabolico utile.

Ed ecco che finalmente arriviamo al secondo marker chiave, ovvero il tempo di contatto al suolo, che come ci potevamo aspettare all’aumentare della velocità diminuisce, mentre aumenta la cadenza e l’ampiezza. Non si modifica invece la percentuale di tempo di volo.

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Tabella 4

GCT è fortemente correlato alla prestazione con un tempo inferiore che garantisce una maggiore velocità. Su questo marker sarà importante cercare di capire se è una causa o una conseguenza dell’aumento prestativo, anche se intuitivamente verrebbe da dire che ne è la causa. MALE 1 nonostante una cadenza minore sfrutta una maggiore ampiezza e genera maggiore tempo di volo rispetto a MALE 2. Questo sembra essere un nodo cruciale, poiché MALE 1 è in grado di sviluppare 281,52 m/min mentre MALE 2 si ferma a 268,38 metri/min.
Indubbiamente più tempo si passa in volo (inversamente proporzionale al tempo di contatto al suolo) e più veloce si va.

Tornando al nostro caso iniziale, LSS diminuisce mano a mano che la velocità aumenta. Il che fa sollevare il sopracciglio, perché ci si aspetterebbe che all’aumentare della velocità siamo più bravi a riciclare energia dall’impatto al suolo. In soccorso viene una nota di Coggan nel gruppo di lavoro FB “Palladino Running Project” che non più tardi del 5 gennaio scorso trattando il tema del rapporto tra Oscilation Power e Horizontal Power osserva come il primo possa diminuire per via dell’abbassamento del baricentro (sink of center of mass) nella fase di contatto al suolo (stance phase), il che ragionevolmente spiegherebbe la riduzione di stiffness. E soprattutto darebbe un senso all’aumento inversamente proporzionale dei valori di impatto a terra (Forza espressa in G) che invece (come più logico) aumentano (Impact Gs 2,40 2,42 2,45 2,46 2,49 2,51 2,52). Cioè la forza verticale aumenta ma la catena piedi-gambe-bacino-core “cede” sotto di essa e quindi non è capace di utilizzarla al meglio.

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Tabella 6

Nel confronto tra i tre atleti potremmo dire che MALE 2 affondi meno rispetto a MALE 1 (che ha da lavorare sulla forza e sulla stabilizzazione) in fase di accettazione del carico così come anche MALE3 che nella stifness ha un’area di possibile miglioramento. Da notare che normalizzando i valori è MALE1 quello messo peggio. Una indicazione che oggi capisco mi viene da pensare sia correlata con la sua continua tendenza a procurarsi lesioni dei bicipiti femorali, e alla diagnosi di scarsa mobilità del bacino e accorciamento della catena posteriore che gli è stata fatta dal fisioterapista. Forse LSS può aiutarci a prevenire infortuni muscolari, non dico in modo generico ma una volta caratterizzato in modo specifico il singolo atleta.
Ritroveremo LSS in un’altra occasione quando parleremo di resistenza alla fatica (e quindi di degrado prestativo!), un contesto nel quale questa ambiguità non è per fortuna problematica.

Altro andamento comune a tutti è la riduzione dei kJ richiesti e dell’ossigeno necessario mano a mano che aumenta la velocità, un comportamento apparentemente controintuitivo (vado più piano quindi consumo meno).

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Tabella 7

La maggiore RE di MALE 1 (maggiore velocità a parità di watt, quindi minore forza richiesta a parità di velocità) si traduce in meno lavoro, quindi RE avrà bisogno di meno energia per completare la stessa distanza. Da notare che questa maggiore economia di MALE1 gli permette anche di consumare la stessa quantità di ossigeno al km pur andando 10″/km più rapidamente di MALE 2.

Se a questo punto vi è venuto mal di testa non preoccupatevi, è normale. Osservare le variabili una a una e poi cercare di correrarla è uno sforzo improbo. Ma ho due buone notizie.

La prima è che esiste una tecnica che si chiama analisi multivariata (Principal Component Analysis), capace di decifrare correlazioni su piani multipli (quindi anche per tutte le nostre variabili contemporaneamente) e la seconda che riducendo la questione a motore, forza (dove metto elasticità), propriocezione (dove metto reattività) siamo in grado piuttosto bene di dirigere il nostro runner più o meno dove vogliamo che vada, anche se le interazioni precise tra questi parametri sono sfuggenti.

Nella prossima puntata passeremo infatti a vedere in modo più applicativo, e utile, come variano i nostri marker nel tempo per lo stesso atleta, osservando così la sua risposta ai differenti stimoli.

Alla prossima puntata!!!


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Come preparare la maratona in poco tempo…ma pur sempre in modalità nerd

Quando #TheRunningPitt (trovate qui il suo punto di vista su questa faccenda) mi ha chiesto di accompagnarlo nel percorso di rientro alla maratona è stato normale confrontarsi con il suo PB sulla distanza, e quindi costruire un programma di lavoro che mirasse a abbattere le 2h29’.

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#TheRunningPitt + #CoachTower: combo felice

Come sempre accade però la teoria si scontra con le circostanze della realtà, che per noi si sono tradotte in 4 settimane iniziali (sulle 12 complessive di periodo specifico) a dir poco difficoltose sotto il profilo della continuità dell’allenamento, per ragioni non strettamente sportive.

Insieme abbiamo quindi ripensato all’evento incastonandolo in una logica di lungo periodo, ri-assegnando il cartellino di A Race a Londra (maggio 2018) e cominciando a considerare Firenze come una occasione per ricostruire senza fretta il Pitt “runner da tempo” e come un banco di prova capace di darci riferimenti sensati alla programmazione di Londra. Nessuna aspettativa di tempo, quindi.

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CentoPerCento Runner…perché le cose vanno fatte per bene sempre

Da quando condivido il mio laboratorio test con Fabio (https://studiopezzoni.com/), biologo nutrizionista e Ironman con cui seguo gli atleti in maniera integrata, ho cominciato a guardare con più interesse agli aspetti di alimentazione e idratazione legati allo sport di endurance. Un’area che fin’ora avevo derubricato come “non è affare mio” ma che adesso stando tutto il giorno a sentire parlare di BIA e diari alimentari non posso più fare finta che non sia importante conoscere.

La pratica continuo a lasciarla a lui, che per seguire al meglio i nostri ragazzi ha accesso anche a Training Peaks così da poter controllare in tempo reale volumi e carichi, oltre che integrare i piani di allenamento e il loro monitoraggio con quelli nutrizionali. Una collaborazione che non solo è importante per l’atleta, che in questo modo è sicuro di allenarsi con il giusto metodo e di rifornirsi di energia in modo corretto, ma che aiuta anche il tecnico a fare meglio il suo lavoro, ad esempio sfruttando le BIA effettuate ai controlli per fare il punto circa le condizioni di forma, poiché la quantità di acqua intra e extra cellulare è una vera e propria prova del nove rispetto a strumenti come il Performance Manager e SuperOp.

Non poteva che capitare meglio quindi l’invito da parte della Società Italiana di Scienza dell’Alimentazione e il Comitato Succhi 100% a partecipare a una mattinata dedicata alla corsa e all’alimentazione pre-post allenamento. Lo scopo era di fare chiarezza sui succhi di frutta in relazione alle esigenze degli sportivi.

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