Perché mi hai fatto pedalare e correre all’alba e al tramonto, al freddo, nel vento, sotto la pioggia, sulla neve o sotto al sole che cuoce le gambe e i pensieri.
Perché sei la giustizia del sacrificio che si trasforma in un traguardo raggiunto.
Perché mi hai regalato un papà-bis proprio quando sono rimasto senza quello naturale, un mucchio di fratelli maggiori con cui litigare e poi fare la pace, e tante sorelline di cui prendermi cura (grazie Spartans)
Perché mi hai fatto imparare a nuotare a trentatrè anni.
“Ah ma io non avevo capito che lo fai per tutte queste ragioni”, mi dice il mio amico Alessio mentre siamo a cena l’altra sera – l’oggetto della conversazione ovviamente è l’Ironman “io pensavo fosse solo per il gusto della sfida fisica”.
Certo che no! a me sembra assodato e implicito e invece evidentemente “da fuori” non è così. Andiamo con ordine e proviamo a rispondere alla domanda: perché ti sottoponi a una tortura del genere?”
Il 7 febbraio 2013 è una data che non si cancellerà più dalla mia memoria. Papà è in ospedale da lunedì e oggi attendiamo i risultati della TAC. A mezzogiorno e mezza mamma non mi ha ancora chiamato e io ho già capito tutto. Comporre il suo numero, sentire la sua voce rotta e ascoltare la conferma dei nostri sospetti peggiori è come entrare in un tunnel dove spazio e tempo sono sospesi. Diventa tutto scuro all’improvviso, nonostante sia una bellissima giornata e il sole scaldi attraverso la finestra del mio ufficio a cui mi appoggio alla ricerca di un sostegno che sostituisca temporaneamente le mie ginocchia tremanti. Volo a Monza, ho solo voglia di stare con lui. E’ una cosa talmente grande, talmente spaventosa, talmente inaspettata che non riesco neppure a chiamarla per nome. E poi per dargli un nome e un cognome preciso dobbiamo anche aspettare ancora.
A tarda sera non mi rimane che uscire da lì e decidere se chiudermi in una muta inattività o eseguire l’allenamento previsto, in piscina. Opto per la seconda soluzione e, anche se all’inizio penso di affogare in vasca, piano piano mi impongo una respirazione regolare. Il ritmo delle bracciate mi trascina in una inaspettata calma, l’acqua che scivola sulla mia pelle ha un effetto rilassante, il cervello smette di macinare pensieri su passato e futuro sintonizzandosi solo sul qui e ora. Esco dall’acqua appena appena più sereno, mangio, cado in un sonno profondo e senza sogni. Ma almeno dormo.
Da ora siamo in battaglia insieme. Sarà un doppio Ironman, il mio facile, il suo difficilissimo. Ma lui è il mio papà, ben più forte di me. E io? e io mi sa che dovrò continuare ad allenarmi e prepararmi per il mio appuntamento, perchè è l’unico modo che ho per ricaricare le mie batterie, l’unico modo per attaccare i cavi alla sua batteria e trasferirgli tutta l’energia che posso. Crederci sempre, mollare mai.
Nuoto
Distanza: 2k (mancano dal Garmin i 100 m gambe)
Tempo: 48′
Passo medio: 1’59″/100 m
La ricordo fin troppo bene questa senzazione di “insostenibilità”, mi era presa anche lo scorso inverno mentre preparavo Milano. Novembre ok, dicembre ok, gennaio ok, ma poi arrivo a febbraio e non ne posso più. Di correre al buio, di correre al freddo, di non vedere gli avvallamenti della strada mentre le mani congelano e l’aria gelida entra dai buchi delle fottute scarpe da corsa che sembrano fatte apposta per farti stare male. E se poi ci si mette una serata di vento forte e tagliente, con raffiche contrarie che quasi ti respingono all’indietro mentre cerco di spingere per andare più forte, la voglia di mandare a quel paese tutta diventa una tentazione irresistibile.
Quasi irresistibile a dire la verità, perchè poi mi ricordo qual è l’obiettivo finale, quanto ci tengo a raggiungerlo e soprattutto quanto bene mi sento dopo essermi allenato: un senso di “cosa ben fatta” che mi rimette in pace con il mondo e che non ha uguali.
Così mercoledì ho tirato fuori un bellissimo progressivo, chiuso fortissimo. Ormai mi sto abituando a vedere un bel 4 tondo in fondo a un 10k. Cose che fanno bene al morale.
Running Distanza: 10 km
Tempo: 44’17”
Passo 4’25″/km
No, non mi riferisco allo spazio che separa la stratosfera dalla superficie del pianeta terra, riempito da un tizio austriaco che di nome fa Felice (più che un nome una dichiarazione programmatica), e neppure ai bicchieri di birra che amo svuotare (e conseguentemente ripristinare) dopo ogni garetta (la birra è la bevanda dell’atleta, è risaputo) ma a questo periodo forzato senza lavori specifici o obiettivi capaci di caricarmi e motivarmi a dovere. Un horror vacui irrazionale che mi premuro di coltivare con cura da sempre, e dal quale mi difendo riempiendo l’agenda di cose da fare (sostanzialmente creando muri sempre più alti per avere poi la soddisfazione di scavalcarli) così che non sia costretto a rimanere neppure un attimo inerte e solo con i miei pensieri.
Eppure il tempo è passato, le settimane si sono allineate ordinatamente una dietro all’altra e oggi se guardo indietro vedo in questa non-stagione una ricchezza inaspettata. Ho scoperto il piacere di correre solo per il gusto di sudare un po’ producendo endorfine, cambiare i percorsi assecondando la bellezza della luce di una strada rispetto ad un’altra o semplicemente modificare l’itinerario per vedere dove scappano lepri e scoiattoli quando ci incrociamo sul sentiero al confine del bosco (si infilano sempre per la stessa stradina, ero curioso).
Settimane in cui ho avuto il privilegio di scambiare qualche chiacchiera con atleti affermati (tra cui un campione del mondo di ciclismo che non è che si incontra tutti i giorni; ne ho approfittato per ottenere consigli di guida), crearmi un meraviglioso gruppo di compagni di allenamento in piscina, accelerare quando avevo voglia di andare più veloce, rallentare quando bicipiti o quadricipiti segnalavano al Capo (l’eminenza grigia che sta sempre bella comoda dentro il cranio) che andare a spasso è bello ma ad un certo punto si sta bene pure seduti.
Insomma, sport o non sport, Ironman o bocce che sia, è evidente che alla fine nella vita conta molto di più l’atteggiamento con cui si affrontano le situazioni, piuttosto che le situazioni in quanto tali. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi, direbbero i più. E invece no, difficilissimo è prenderne coscienza, avere la percezione nel momento in cui siamo in difficoltà (perché la stanchezza sta prendendo il sopravvento, perché la pioggia è forte, perché il nostro intestino si sta ribellando contro di noi) che nel 99% dei casi i problemi sono affrontabili e risolvibili, a patto di trovare dentro di sé la forza e la determinazione per scegliere di esserne i controllori e non i controllati. Una volta accesa la lampadina fare qualcosa per cambiare l’inerzia delle cose è il meno.
Alla fine credo finirò con l’ammettere che anche questo strano periodo di vuoto è servito. Perché ho scoperto che il vuoto non esiste se hai abbastanza creatività per plasmarlo in ciò che vuoi.
Quando sabato mattina ho terminato l’ultimo allenamento della settimana stanco il giusto e con un sorrisone largo così sulla faccia ho capito che la terapia di rigenerazione sta funzionando.
Questa off season mi sta insegnando un sacco di cose, prima fra tutte che leggerezza e densità non sono agli antipodi, come uno potrebbe immaginare, ma che in realtà possono andarsene tranquillamente a passeggio insieme.
La leggerezza nel carico di lavoro e nell’intensità mentale ti permette infatti di sperimentare nuove sensazioni e con maggiore coscienza. Il trucco è mettere da parte i pregiudizi e darti la possibilità di guardare le cose da prospettive diverse dal solito. Essere meno fissati con un obiettivo permette di spostare lo sguardo dall’orizzonte a ciò che hai sotto il naso, lasciandoti vivere con maggiore intensità il quotidiano. 24 ore diventano così un tempo troppo breve per poterci far stare tutto quello che vuoi (densità!) e alla fine anche se sei stanco morto hai la netta percezione di essere cresciuto almeno un pochino, ogni giorno, specialmente quando:
1) Chrissie Wellington, l’atleta che ammiri di più, 4 volte campionessa del mondo Ironman e detentrice del record mondiale sulla distanza (8h18’13”) ti dice che il riposo è necessario perché permette a ciascuno di noi di rimettere le cose nella giusta prospettiva, ricaricarsi e individuare il percorso di crescita su misura – e scopri che ha ragione (detto da lei, che per di più si è presa un anno sabbatico, fa un certo effetto);
2) grazie all’obbligo di fare tutto a sensazione, guardando il crono solo al termine a puro fine di registrazione\archiviazione dati, elimini “l’ansia da prestazione” negli allenamenti – e ti rendi conto che sei tornato a sorridere mentre corri e pedali (in vasca no, altrimenti affoghi);
3) senza l’assillo del tempo ti concentri molto di più sulla tecnica – e cominci a rimediare al tuo problema dei primi chilometri in bici senza energie semplicemente usando quasi zero le gambe per nuotare (ovviamente compensando con la maggiore spinta delle braccia, una cosa su cui devo ancora lavorare tantissimo ma la direzione è quella giusta);
4) provi il percorso che la prossima primavera ti dovrà condurre da casa in ufficio e viceversa almeno un giorno alla settimana – e scopri che si tratta di un bellissimo vallonato molto simile al tratto bici dell’IM Florida, ma soprattutto che in 2h15 riesci a fare Parma – Maranello (65 km circa) spegnendo la tua maggiore preccupazione circa la necessità di pedalare tanto e non averne il tempo;
5) il coach dichiara che ti preparerà secondo i più moderni dettami della medicina sportiva per i quali meglio privilegiare la qualità (allenamenti brevi ad altissima intensità, qui l’articolo per chi fosse interessato), piuttosto che la quantità (sedute lunghe, lente…e distruttivi per le articolazioni) – ed è subito evidente che questo si concilia alla grande con il tuo poco tempo a disposizione
Insomma, ce n’è abbastanza per riempirne due di settimane con questa roba!
p.s. sul blog di Anne c’è un bel post che parla di felicità (in generale, mica solo legata alla corsa). Ecco, a parte la condivisione sulla filosofia di fondo vorrei aggiungerci una cosa: la felicità non capita per caso, non è questione di essere fortunati. La felicità si costruisce, giorno per giorno, impegnandosi a trovare un senso anche ai momenti difficili. Tenendosi il buono di ieri e pensando che domani sarà meglio. Lamentarsi senza fare nulla per cambiare situazioni che non ci piacciono non serve a niente. Le cose vanno fatte, qui e ora. Sempre.
E’ domenica sera, sono comodamente seduto sul divano davanti a una partita della NFL, ho appena svuotato una bottiglia di birra artigianale padovana e in teoria questo post avrebbe dovuto essere il recap della mia settimana di allenamenti.
Pensavo di raccontarvi di come avessi ricominciato a spingere con l’obiettivo di scendere sotto i 40′ sui 10k nel giro di 2 mesi, snocciolando minutisecondichilometrimetribattitiewatt incolonnati per benino sui miei fogli excel. Di una settimana con due sedute impegnative e veloci in piscina, di due sessioni in bici tra cui una da 80k di pianura in due ore e mezza perennemente in posizione crono, e di due uscite di running a 4’10” di media….ma non è così perché martedì e sabato a piedi sono stato 20”/km più lento di quanto la logica avrebbe voluto e così addio fredda e scientifica pianificazione dei miei progressi.
Over training, l’impietosa, e ahimè corretta diagnosi, da parte del mio coach. Via il Garmin, il suo ordine e “lascia a casa quel c****o di orologio ” l’esortazione della mia amica e socia di corse Anne (che ben riassume la situazione e quindi si merita il titolo a questo post), per non parlare del cazziatone (senza censura, non è una parolaccia) che mi sono preso da mia moglie ieri notte all’una, dopo aver pazientemente sopportato una giornata di musi lunghi da parte mia perché “non riesco a fare i tempi” e “il coach mi vuole mettere a risposo di nuovo”.
Ebbene sì, ci sono ricascato nel vizietto di crearmi programmi tiratissimi con obiettivi assurdi solo per compiacere il mio ego e dimostrare (a me stesso prima che al mondo, ma certamente anche al mondo) che “sono capace di fare qualsiasi cosa”. Neanche una settimana di riposo che subito mi sono rimesso a tirare come un disperato, con una road map chiarissima in testa: sotto i 4’/km entro la fine di novembre sotto i 3’50”/km entro inizio primavera, sotto i 3’40” per la fine dell’estate, così si va in Florida con la maratona da chiudere in meno di 3h e magari ci scappa la qualificazione per Kona al primo colpo.
Pazzo visionario arrogante che non sono altro. Ancora una volta mi sono dimenticato che il corpo esige rispetto e che se questo non gli viene tributato lui è capacissimo di prenderselo con la forza. A differenza di quanto accaduto ad agosto stavolta almeno ci ho impiegato solo una decina di ore a convincermi che se non la pianto di caricarmi e analizzarmi come se fossi una macchina e non un essere fatto di carne e sangue non andrò proprio da nessuna parte. Così stamattina me ne sono uscito in bici in tutta calma lasciando il 910XT in tasca, affidandomi solo alle sensazioni e divertendomi anche parecchio, partendo rilassato, spingendo quando me la sentivo e recuperando quando ne avevo bisogno.
Mentre pedalavo per la bassa parmense un po’ mi guardavo attorno pensando a quanto amo le cose e le persone che riempiono lo spazio lungo l’argine emiliano del Po (culatello, parmigiano e le tradizioni di chi li fa, innanzitutto), e un po’ rimuginavo su me stesso, sulle mie ossessioni e sulla mia incapacità di accettare i limiti. Ho sempre pensato che non fissare obiettivi difficili e scegliere di affrontare sfide al limite dell’impossibile fosse un atto da pusillanime, da gente smidollata e irrispettosa di se stessa. E invece osservando con un po’ di distacco le vicende degli ultimi mesi (over training, riposo forzato, ottimi risultati, promesse di riposo mancate e di nuovo over training) mi tocca riconoscere che anche inseguire tutte le sfide ad ogni costo può portare all’infelicità, di sicuro a farsi del male.
E allora, siccome molte persone che mi conoscono bene e mi vogliono bene stanno unanimemente suggerendomi di prendermi meno sul serio e avere un po’ meno pretese da me stesso temo di essere costretto a dare loro retta. Nelle prossime settimane, dunque, allenamenti meno frequenti e nessuna misurazione in corso, concessa solo a fini d’archivio un’occhiata superficiale dei dati a fine sessione.
Coach Ironfrankie oggi mi ha congedato con una frase misteriosa: “Continui così fino al 21 ottobre. Quel giorno farai una cosa. Tieniti libera la giornata”. Dopo qualche congettura (una mezza? un triathlon? un torneo di assaggio del carrello dei bolliti?) mi sono ricordato del nuovo corso e ho smesso di pensarci. Poi mi sono aperto una birretta.
Ooh) What you want (Ooh) Baby, I got (Ooh) What you need (Ooh) Do you know I’ve got it (Ooh) All I’m askin’ (Ooh) Is for a little respect when you come home (Just a little bit) Hey baby (Just a little bit) when you get home (Just a little bit) mister (Just a little bit)
Well, come on pretty baby, won’t you walk with me? Slow down, baby, now you’re movin’ way too fast. You gotta gimme little lovin’, gimme little lovin’, Ow! if you want our love to last.
(The Beatles, Slow Down – 1964)
Quando sei abituato a lavorare duramente per mesi con l’obiettivo di limare anche solo di qualche secondo il tuo personale, quale che sia la distanza, è naturale scegliere di correre su percorsi ben noti e quindi ricchi di riferimenti che ti aiutino a capire se stai eseguendo gli esercizi al giusto ritmo. Per di più la concentrazione necessaria è tale da cancellare completamente il contesto, così che a mala pena riesci ad accorgerti del passare delle stagioni, al massimo fai caso a differenze di luce e temperatura ma sempre e solo in funzione della performance.
Dopo 11 mesi vissuti “al massimo”, però, è importante staccare la spina, che non significa diventare fan del divano bensì ridurre il numero di uscite, i chilometraggi, ma soprattutto provare a correre senza il pensiero fisso della prossima gara, disinteressandosi della prestazione. Il runner competitivo, come il sottoscritto, si avvicina a questo periodo con scetticismo, convinto che non riuscirà mai a fregarsene di tutti i parametri con cui normalmente misura se stesso.
E invece? Invece capita che una mattina ti svegli in un posto nuovo e ti rendi conto che il modo migliore per esplorarlo è indossando le scarpe da corsa. Così esci dal cancello sapendo solo che il percorso pedonale lungo lago è più o meno in quella direzione. Ti avvii e poi dopo qualche decina di metri chiedi indicazioni, tu che non parli mai con nessuno perché devi risparmiare il fiato, ad un ragazzino sullo skateboard. Gli sorridi, e lui è portato a rispondere al tuo sorriso. Ti mette sulla strada giusta e guardandoti attorno capisci che stai arrivando in un bel posto.
Non dovendoti preoccupare del tuo passo né dei battiti del tuo cuore (ma solo dell’ora di rientro per la colazione) cominci a guardarti intorno e vedi. Vedi l’erba e tutte le sue sfumature, noti che gli alberi non sono tutti uguali e ti accorgi che sopra di te le nuvole corrono assumendo forme sempre diverse e disegnando ombre sui fianchi della montagna di fronte a te, la cui pietra è esattamente la stessa usata per costruire l’antica casa in cui hai passato la notte. E poi ci sono i suoni e i profumi, l’incrocio con altri runner (chissà perché mi sembra che stamattina se la prendano tutti comoda) con cui scambi anche qualche parola circa il sentiero migliore da prendere. Un’occhiata complice arrivati al bivio e via, in pace con gli altri e con se stessi.
Succede anche che il posto è di una bellezza tale da perdere il fiato e così l’iphone, che avevi portato per essere sicuro di non perderti, lo tiri fuori per fare una foto. SÌ, tu runner competitivo che non interromperesti una corsa neppure se ti minacciassero di morte, ti fermi. Scatti, respiri, ti guardi intorno. E poi ti avvii sulla strada del ritorno, rimpiangendo di non aver potuto esplorare un po’ di più.
Tornando sui tuoi passi ormai ti senti a tuo agio con un luogo fino a poco prima sconosciuto. Riconosci pendenze, curve, superfici e così aumenti senza far fatica la velocità fino a che, a pochi metri dal portone davanti al quale ti fermerai, guardi il fedele GPS: 4’30″, l’equivalente di un medio nell’ultimo chilometro. Incorreggibili questi runner da caccia.
Se siete in cerca di motivazione, se avete bisogno di ritrovarla o se vi serve una lista di risposte da dare a chi con aria di sufficienza vi chiede se siete matti a fare quello che fate, ecco a voi un vero e proprio gioiello. In questo video “spot” del New York Road Road Runners Club (gli organizzatori della Maratona nella grande mela, per intenderci) ci sono tutte le ragioni e tutte le risposte possibili, o quanto meno le fonti di ispirazione per trovarne molte altre. A me ogni volta che lo guardo rischia sempre di scappare la lacrimuccia.
E ricordiamoci la cosa più importante: la ragione per cui corriamo basta che sia valida per noi stessi, tutto il resto e tutti gli altri non contano.