
Una metodologia dell’allenamento nello sport di endurance che si ponga l’obiettivo del miglioramento prestativo richiede necessariamente due passaggi:
- lo studio degli aspetti fisiologici (metabolici, neuromuscolari/biomeccanici) per la definizione di protocolli su cui la comunità scientifica sia in accordo
- l’applicazione all’individuo “sul campo” di tali raccomandazioni generali, e la conseguente osservazione sul tipo di risposta specifica per innescare un processo virtuoso di verifica e aggiustamento del principio dose-risposta
La rapida progressione tecnologica che rende sempre più semplice e economico misurare il comportamento degli atleti nel mondo reale (outdoor) ha fatto assumere via via più rilevanza alla performance analysis nel supporto alle decisioni del tecnico, tanto che un approccio matematico nella elaborazione dei protocolli di allenamento e delle strategie di gara (race pace) è addirittura ritenuto in certi contesti più utile di uno basato unicamente sulla misurazione di parametri fisiologici, come concluso nella review “Critical Power: Implications for Determination of VO2max and Exercise Tolerance“, pubblicata nel 2010 sulla rivista Medicine and Science in Sports and Exercise 42(10):1876-90 · February 2010.
“The measurement of changes in the P-t relationship after a training intervention is likely to be functionally more valuable than the measurement of discrete physiological constructs such as, for example, VO2max, GET/LT, or “anaerobic power”.
In sintesi dunque, come sintetizza Andrew Coggan “the best predictor of performance is performance itself” anche se probabilmente una posizione più neutra, che integri la modellizzazione matematica con la verifica dei parametri fisiologici è consigliabile quando si ha la responsabilità dei risultati di un atleta.
Inoltre, è vero che il livello funzionale dell’atleta è riassumibile in una relazione potenza-tempo, ma è anche vero che la potenza è l’espressione meccanica del costo metabolico ed è quindi condizionata non solo da aspetti puramente metabolici (immaginiamoli come il “motore”) ma anche neuromuscolari e biomeccanici (“telaio, sospensioni, gomme” per mantenere la metafora automobilistica), tecniche (pensiamo alle diverse componenti di una bicicletta, dai rapporti, alle pedivelle, ai profili ruota, per non parlare della posizione in sella, o le scarpe per quanto riguarda la corsa) e ambientali (temperatura, umidità, pressione con) con impatto sulla fisiologia (ad esempio al variare della core temperature) e sull’effetto “estrinseco” della fisiologia (ad esempio minore o maggiore velocità al variare della resistenza all’avanzamento a pari costo metabolico).
Insomma, usare indicatori sintetici sembra essere una ragionevole opportunità di tipo pratico per riuscire a manipolare le variabili in entrata (su sui abbiamo più o meno controllo) in modo da valutare l’impatto della loro variazione sul risultato: andare più veloci o andare più lontano.
Il nodo cruciale è riuscire a generare informazione utile dalla mole di dati a disposizione. Il dato infatti non è informazione di per sé, perché è sempre accompagnato da un livello più o meno elevato di rumore e bias, da cui l’importanza del pre-trattamento. Nasce dunque da questa presa d’atto il tentativo di prendere a prestito dalla chemiometria, la disciplina della chimica che usa modelli matematici per valutare e predire proprietà chimiche, fisiche, biologiche, il metodo e le tecniche di analisi multivariata (Data Analysis and Chemometrics, Paolo Oliveri, Michele Forina, 2012), da applicare al mondo dell’endurance.
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