L'era del Ferro

Dal divano alla finish line

Trans d’Havet 2018: il senso del limite dentro la tempesta

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Volevo i 5 punti della Trans d’Havet e li ho avuti, desideravo una gara dura in cui mettermi alla prova dopo 3 mesi dedicati a migliorare i miei tanti punti deboli e porto a casa un’esperienza estrema che mi restituisce allo specchio un Matteo cresciuto mentalmente e interiormente.

Potrebbe anche finire così il racconto della mia TDH 2018 ma sono state 18 ore così pazzesche che forse vale la pena di raccontarle. Ripensare ora a una delle ultime frasi che ho pronunciato prima di arrivare al traguardo, rivolgendomi al presidio della Protezione Civile al termine della discesa di Cima Marana “a mio parere non ci sono le condizioni di sicurezza per far scendere altre persone da qui”, mi fa rendere conto che ben oltre la gara ieri ho imparato il senso del limite, sfiorandolo più volte.

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NOTTE DI TEMPESTA

Che non sarebbe stato facile lo abbiamo capito tutti fin dal via, quando appena prima di andare alla spunta ha iniziato a piovere forte con tanto di raffiche di vento, a segnalare un peggioramento delle condizioni in quota tale da richiedere subito il taglio della prima vetta, le creste del Summano. Allo start dato a mezzanotte e quindici situazione di nuovo asciutta e prima salita affrontata senza problemi, così come la discesa in cui ho iniziato a costruire il “tema” della gara, cioè gas spalancato in discesa dove ormai vado decorosamente, e contenere i danni sulle salite dure, dove ancora ho molto da migliorare.

Era la mia prima volta di notte, e pur avendo corso più volte al buio non avevo mai passato l’intera nottata in movimento, temevo il sonno ma abbiamo avuto di che tenerci occupati perché il problema non si presentasse proprio. In cima alla seconda salita del Novegro a quota 1700 m mi infilo tutto bello contento nella tenda del ristoro, recupero le canoniche banana-fettadipompelmo-cocacola e me ne esco tutto bello giulivo in manica corta.

C’è qualcosa di strano però…c’è molto rumore, e c’è luce! Non so se siamo noi a essere finiti dentro al temporale o lui che è venuto a cercarci, rimane il fatto che ho appena il tempo di infilare la giacca da pioggia prima che comincino a scendere secchiate di acqua. Sono nel pianoro che precede la discesa nel bosco, quindi completamente esposto alla pioggia, dentro a un rumore assordante. Cominciano a bagnarsi persino le mutande e sento tantissimo freddo.

E’ qui, intorno alle 4 che la testa entra davvero in modalità gara, quella sensazione che conosco bene e che mi piace da impazzire, così rara da assaporare perché serve trovare la perfezione. Mente e corpo fusi in concentrazione totale rivolta all’obiettivo: arriva in fondo più in fretta possibile, il più sano possibile, porta a casa i punti UTMB. Infatti prendo la decisione giusta, mi fermo di nuovo e sacrifico un minuto per indossare i pantaloni antipioggia. Riparto e in breve sono di nuovo perfettamente in comfort. Fuori c’è tempesta, scende la grandine per traverso, a folate. La vedo a terra, la vedo riflessa dalla torcia, ma per il resto non vedo granché, ci saranno sì e no 2 metri di visibilità. Dentro, protetto dal guscio che mi ripara, respiro un mondo quieto e tiepido. Sto benissimo, le gambe girano facili, la pancia è ok.

Ormai sono nel bosco, inizia la discesa. Passi corti, cadenza alta, busto leggermente spostato in avanti come quando scii, non ruotarlo mai così come le spalle. Braccia appena larghe, i piedi devono atterrare sempre sotto al bacino. Terra, pietra, pietra, terra, ancora e ancora senza soluzione di continuità . Scappa via veloce da ogni appoggio, chi si ferma è perduto. Stai lontano dalle radici bagnate, se metti la scarpa lì sopra finisce male. E’ il Nirvana, ancora una volta ci siamo incontrati, ed è in questo stato di trance che finisce la discesa e con essa anche la tempesta.

L’ALBA SENZA SOLE NELLE GALLERIE

Alle 5:30 arrivo a Passo Xomo dove faccio la mia colazione a base di Coca Cola, non piove, il cielo è coperto ma si sta bene. Torniamo a salire all’attacco del Pasubio, il sentiero delle 52 gallerie è duro ma non terribile, i passaggi in galleria mi danno fastidio, sarà il buio, sarà che manca l’aria, sarà che si avvitano a chiocciola ricordandomi la galleria del Norseman, sarà quel che sarà ma ce ne fanno fare 46 anzichè 52 e la cosa mi fa felice. Scoprirò a fine gara che il percorso è stato cambiato anche lì perché i primi ci sono passati durante la tempesta e più in alto i fulmini si infilavano dentro i tunnel…

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Soffro in salita ma in discesa recupero che è una bellezza, senza fatica. L’antipasto del Carega è uno strappo di 400 m compresso in 3 km di lunghezza, nulla in confronto a quel mostro che ci porta fino a quota 2200. Trovo anche il tempo di distrarmi nell’attraversamento di un guado in cui mi preparo un taglio sulla tibia, niente altro per fortuna a parte lo spavento. Mi raccoglie un ragazzo che abita a Reggio Emilia, salvato da una testa quadra, magia del trail!

OGNI GARA HA LA SUA CRISI

Ogni gara ha almeno una crisi, due quando sono così lunghe, e infatti la prima arriva, dal km 57 poco a tre quarti del Carega, perdura in discesa e si conclude al rifugio Scalorbi al km 62,5, per merito di una pastina in brodo caldo rigenerante in cui tuffo delle fette di imprecisato formaggio. Il pensiero corre al mio nutrizionista nonché socio Fabio Pezzoni che da una settimana mi tiene a stecchetto di latticini. Chissà se avessi chiesto all’alpino che mi parla in vicentino stretto di trovarmi uno yogurt di soia!

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Mangiare e stare seduto 15′ ha un effetto portentoso. Sul mangia e bevi successivo trovo un compagno di corsa di Vicenza, conosce bene il percorso e modula il passo alla perfezione. A dire la verità non è che moduliamo il passo, corriamo come ci stesse inseguendo il diavolo. Corriamo, chiacchieriamo e recuperiamo un decina di posizioni, passando anche alcuni concorrenti della 42 km che ci fanno un gran tifo. Se è vero che la felicità si trova nelle piccole cose allora posso dire che per 2 ore sono stato felice da fare schifo.

Riparto dal penultimo ristoro con il morale altissimo, il corpo brillante e la ragionevole ipotesi di chiudere in 17 ore e 30 minuti. Non faccio però i conti con il meteo che dopo aver messo un piede sulla prima pietra in cresta a Cima Marana si scatena nuovamente rovesciando sopra le nostre teste un  autentico nubifragio. Sono nel posto peggiore possibile: ho superato il punto di accesso presidiato dal soccorso alpino, le rocce bagnate sono una trappola e il fatto di essere su una parte di sentiero esposto su due versanti non mi aiuta neanche un po’. Procedo con estrema cautela fin quando non arrivo all’inizio della discesa che se possibile è ancora peggio.

IL REMAKE: SECCHIATE D’ACQUA

Un declivio scosceso del tipo “se scivolo arrivo direttamente a Valdagno, 1000 m più in basso, il viottolo di terra trasformato in fiume di fango. Gli organizzatori hanno modificato anche qui il tracciato, anziché venire giù dritto per dritto facciamo dei gran traversi. Mi raggiungono in 4, scambiamo qualche parola e decidiamo che la scelta più intelligente è quella di levarci di lì rapidamente. Non possono passarmi e se continuo così faccio da tappo, cambio marcia e…voliamo giù, anzi sarebbe meglio dire che planiamo sull’acqua. Purtroppo quel ritmo per me è una trappola che sommato alla non abitudine a stare sulle gambe per 16 ore sigla la condanna definitiva. Una volta in piano con poco meno di 15 km alla conclusione sono muscolarmente finito. Riesco giusto a alternare cammino con un ridicolo trotterello, sempre sotto al diluvio. Mi servono due ore per arrivare al traguardo a gustarmi una delle soddisfazioni maggiori della mia modestissima carriera sportiva.

Una gara, una esperienza, che rimarrà per sempre impressa nel mio profondo per la complessità e il livello dei requisiti necessari a finirla. A livello mentale nella continua sfida di adeguare il proprio comportamento alla variabilità ambientale (tradotto “lucidità”) e a livello fisico perché evidentemente meno si stava in giro e meglio era, quindi imperativo mettere sempre il 100% del gas. Prossima fermata UTLO.

Nota a margine

Ho saputo soltanto in serata, dopo doccia e cena, che a causa di una frana sul sentiero Milani la gara è stata interrotta. Per quello che ho potuto vedere la direzione gara ha gestito al meglio una situazione difficile e anzi, forse avrebbe potuto essere anche un filo più conservativa.
Siccome siamo tutti maggiorenni e, si suppone, consapevoli, chi si lamenta che la gara sarebbe dovuta essere sospesa durante la notte dovrebbe ricordarsi che di partire non gliel’ha ordinato il dottore e che una volta in quota di soluzioni non ce ne sono tante a parte muovere il culo e scendere. Poi ci si può anche ritirare.
A quelli che si lamentano come bimbi capricciosi che non gli è stato consentito di finire – appunto causa frana – invece dico che sono inadatti a andare per montagne da cui dovreste aver ormai imparato che a volte nella vita capita di non poter gratificare a tutti i costi il proprio ego né sfogare la propria frustrazione sugli altri. State a casa a girare attorno ai palazzi così riflettete sulla vostra immaturità.

Grazie a Giovanni Ferretti per le foto

 

 

 

 

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