L'era del Ferro

Dal divano alla finish line

Capanna Margherita: il mio primo 4000

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Punta Gnifetti e Capanna Margherita a quota 4554 m

Nella sala colazioni del rifugio Gnifetti, tremilaseicento e spiccioli metri sopra ad Alagna Valsesia, alle 4:30 del mattino c’è un sacco di gente. Non è normale che tutta questa gente faccia colazione a quest’ora, con il buio pesto fuori, una temperatura non molto distante dallo zero e il vento feroce che alza polvere di ghiaccio. L’unica ragione valida perché un gruppo così numeroso di persone sia intento a spalmare marmellata sulle fette biscottate alle 4:30 del mattino è che là fuori li aspetti un Ironman. Ma qui fuori non c’è nessuna zona cambio, nessuna bicicletta e niente familiari in veste di tifosi. Anche se non ho dormito molto e ho un vago mal di testa perdurante da diverse ore sono molto sicuro che questa non sia una gara di triathlon.

Cesso con vista

Là fuori in effetti ci sono gli ultimi 1000 m di Monte Rosa e un bel po’ di cime su cui avventurarsi una volta attraversati i ghiacciai che le separano. Quello che dovremo attraversare per primo si chiama Lys, l’ho visto ieri al tramonto dalla finestra del cesso, un cesso alla turca in alluminio, gelido pure lui, e mi è sembrato terrificante, con i suoi seracchi color zaffiro, ammucchiati in equilibrio precario uno sopra l’altro, formati da blocchi di ghiaccio dall’aspetto affilato e minaccioso. Mi sono chiesto come diavolo facciano a rimanere in quella posizione e la risposta che mi è stata data non è stata per niente rassicurante: in effetti non rimangono molto a lungo nella stessa posizione. I seracchi si muovono, come si muove tutto il ghiacciaio, tutta la montagna. E’ viva questa roba qui.

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La parte  intermedia del Lys vista dal Gnifetti con la cresta del Naso a vegliare sui crepacci

Mai rinunciare all’eleganza

Non è un Ironman ma come prima di un Ironman anche qui c’è la liturgia della preparazione materiali e della vestizione. Metto nello zaino il minimo necessario per la gita alla Capanna Margherita: qualche gel, la borraccia con il the bollente, una termica, un paio di calze e un paio di guanti di ricambio, gli occhiali da sole, un secondo buff. Opto per abbigliamento pesante vista la situazione esterna con sotto-pantaloni modello superPippo, termica e giacchino invernale, i pantaloni e il guscio da sci-alpinismo sopra. Infilo gli scarponi, rigorosamente in tinta con la giacca a vento e i pantaloni, e facendomi coraggio esco sul terrazzo per mettere i ramponi. L’aria mi schiaffeggia la faccia ma la cosa peggiore è sicuramente il freddo alle mani. Per fortuna ho provato la procedura parecchie volte la sera prima, anche se ripetere l’operazione sulla balconata, schiacciato tra tante altre persone intente nelle stesse operazioni, alla luce della torcia frontale e con tutto quel freddo non è per niente semplice. Una volta pronto dirigo lo sguardo verso est dove una timida alba completamente tersa ci dà il buongiorno. Sarà una magnifica giornata, lo sento.

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L’alba del 17 agosto dopo una una giornata che ha lasciato 15 cm di neve fresca

Come TIR in autostrada

Fabio, membro del glorioso corpo delle guide alpine di Alagna, recupera me e il mio compagno di cordata Andrea, atletico pilota di elicotteri della Marina Militare, portandoci verso la parte più alta della terrazza dal cui bordo sembra che gli altri alpinisti vengano risucchiati da un buco nero. “E’ meglio che scendiate con la faccia verso la parete” mi mette subito in allarme. Dietro di me c’è troppa gente in attesa, avvio il Garmin, non posso fare altro che aggrapparmi a una corda fissa e far scendere un piede fino al primo piolo conficcato nella roccia. Non so quanti altri ce ne siano e francamente non me ne preoccupo, tanto non si vede un tubo. So solo che a un certo punto finiscono e mi ritrovo sul ghiaccio a guardare Fabio che assicura una corda alle nostre imbragature. Davanti il primo muro da superare, illuminato da tanti piccoli puntini luminosi che lo risalgono per traverso, sono le cordate partite prima di noi. “Occhio ai crepacci” avverte Fabio mentre cominciamo a camminare. Ci muoviamo all’unisono, piano piano risaliamo il flusso di chi ci precede, e anche se nei tratti di maggiore pendenza le velocità sono molto simili giudico che siamo decisamente tra i più rapidi sul ghiacciaio. A volte serve veramente molto per completare il sorpasso, stando per di più fuori traccia e quindi faticando di più. Mentre constato come non riesca proprio a fare a meno di gareggiare, credo mi si formi un ghigno soddisfatto sul viso. Pare che anche ai miei due soci la sfida piaccia, martelliamo senza sosta un passo regolare, poche parole e nessuna sosta.

Campeggiatori da ghiacciaio

Ci vuole circa un’ora per superare il primo muro, quasi 400 m di dislivello in 1,4 km ad una pendenza media del 28%. Prendiamo fiato su un accenno di pianoro nel bel mezzo del ghiacciaio tra il Lyskamm Orientale e il Corno Nero. La luce ha preso possesso di questa terra sospesa nel cielo e l’orizzonte è una linea che divide il bianco dal blu scuro. Il vento si è placato, si continua però a congelare e noi abbiamo anche fatto in tempo a essere usati come messaggeri per conto di un matto che, solitario dalle 4 del mattino, campeggia a metà pendio. Ci intercetta mentre passiamo davanti alla sua tenda arancione, è il tizio simpatico che ieri è salito in funivia con noi fino all’Indren. “Fabio, per favore di’ al Lungo – la guida alpina presso la cui casa ho passato l’ultima settimana in Valle, ndr – che non sono andato a… – non intellegibile, ndr – perché stamattina alle 4 c’era un nebbione che non vedevo oltre il mio naso e allora ho pensato di dormire un po’ qui e poi di andare a… – di nuovo non intelligibile, ndr”. E io che pensavo che noi fossimo matti a fare gli Ironman.

 

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Naso e Lyskamm Orientale intorno alle 7 del mattino

Vodafone: benvenuti in Svizzera

Riprendiamo a salire fino a che non raggiungiamo il Colle del Lys a 4248 metri. Da dietro Punta Parrot il sole invade il Grenzgletscher, che si estende enorme sotto di noi in territorio svizzero. Lo sconfinamento viene sancito dall’sms dell’operatore telefonico. Bisogna mettere gli occhiali da sole, cerco di fare qualche foto ma non c’è abbastanza tempo per mangiare, bere e fotografare allo stesso tempo. Le dita si congelano, è doloroso anche manovrare i ganci dello zaino, butto giù un Gu al cioccolato duro come una roccia e uso la borraccia calda per cercare un po’ di sollievo alle dita. Lo scenario è mozzafiato, non solo per la bellezza violenta di questo posto ma anche perché l’altitudine si fa sentire e respirare ora è faticoso.

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L’enorme conca del Grenz segnata a est da Punta Parrot e dal “panettone” del Ludwigshohe

Alcool test

Scendiamo un po’ ma dopo un quarto d’ora riprendiamo a salire e infine attacchiamo il secondo muro. Sono 260 m di dislivello che richiedono quasi un’ora di lavoro. Ogni passo è una lotta, “respiri lunghi” ordina Fabio sentendoci boccheggiare. Guardo in su, la fine del pendio sempre lontanissima. “Non guardare la meta” continuo a ripetermi, pensa solo a mettere un passo dopo l’altro. Un passo alla volta, un passo alla volta, è il mio mantra. Il cuore batte forte, lo sento in gola, pulsa nelle orecchie. Devo soltanto camminare, non gli chiedo mica tanto. E lui ci prova a portare l’ossigeno ai muscoli, ma di ossigeno ce n’è poco, va estratto dall’aria sottile, è una dannatissima fatica farlo. I tendini urlano, non sono abituato a camminare così a lungo su queste pendenze. Sono ubriaco, mi sembra di ondeggiare, la testa è leggera e devo concentrarmi su un singolo pensiero per mantenere il controllo di gambe e piedi. Lo sento che loro vorrebbero fare quello che gli pare ma ho deciso che non comincerò a sbagliare gli appoggi o strascicarli. Vorrei fermami, se fosse triathlon potrei riposarmi un po’. Qui no, non si può. Perché siamo legati, perché il tempo è contato e non si può sprecare neanche un secondo. Avanti fino al prossimo cornicione.

 

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Nel mezzo del Lys intorno alle 11:45, sullo sfondo a Nord Punta Dufour

Se fosse stato facile si sarebbe chiamato calcio

Quando ci arriviamo mi appoggio al bastoncino con tutto il peso. Rimango lì per un po’, con il viso nascosto nelle mani, le lacrime scese per la fatica che non si ghiacciano perché sono troppo caldo io e perché il sole continua a illuminarci. Guardo a est, alzo gli occhi e 60 metri più in alto vedo lei, Capanna Margherita, miracolosamente appoggiata su punta Gnifetti a 4554 metri di altezza. E’ sospesa a strapiombo sulla parete est del Monte Rosa, come un equilibrista sul filo piazzato sopra a una parete verticale di 2000 metri, un salto nell’abisso di ghiaccio e roccia dal quale nasce il fiume Sesia. A ovest c’è Punta Zumstein che nasconde la Dufour, la vetta più alta del massiccio 100 metri scarsi più su. Non c’è dubbio, siamo sul tetto, resta pochissimo per raggiungere il nostro obiettivo. L’ultimo quarto d’ora ha un codice: 33,5%. Lo so bene che chiunque pratichi la montagna in modo minimamente serio ha tutto un altro concetto di verticalità, ma per un uomo di pianura trentatrevirgolacinquepercento di pendenza è decisamente verticale. Ripartiamo e questa volta mi sembra ancora più difficile di prima. I polmoni cercano di gonfiarsi ma più di tanto non riescono, i tendini d’Achille gemono sotto quest’angolo innaturale che gli impongo finché istintivamente non comincio a eseguire come si deve le indicazioni di Fabio: rampone a monte di punta e piede a valle per traverso. Svuoto la mente e mi concentro su quello. Infila il rampone nel ghiaccio e poi tira su l’altro piede usandolo come appoggio per la stabilità. Non fare niente altro, hai trovato la tua routine di sicurezza. Non serve neanche pensare. Esegui, sei una macchina. Non esisti, funzioni.

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La vista da Capanna Margherita in direzione Nord con Punta Zumstein in primo piano a occultare la Dufour

 

Il ponte che unisce il desiderio al risultato

E finalmente, arriviamo sul pianerottolo del Margherita. Io non me ne accorgo neanche perché sono calato nel mio Nirvana, è Andrea che grida di gioia “ci siamo ci siamo”. Mi guardo intorno e ho bisogno di qualche secondo per uscire dalla mia trance. Il tempo di reagire alla stretta di mano di Fabio e dirgli grazie, il tempo di girarmi verso Andrea e battere un cinque. Tre ore e quaranta minuti di fatica e bellezza, di sudore e gioia, di gelo e tepore, di comfort e discomfort, di testa e di corpo, di pensieri e di azioni, tutto dapprima disordinatamente mischiato e poi perfettamente fuso insieme come mai prima. Vengo travolto da un’ondata di emozione, ce l’abbiamo fatta, ho trovato un nuovo limite, ci ho sbattuto la faccia, mi sono rialzato, l’ho spostato. Sono passato al livello successivo dopo che per tanto tempo ero rimasto imprigionato al piano di sotto. Non mi sembra vero, quattro anni dopo la Florida ho di nuovo in bocca quel gusto lì della nuova scoperta, dell’ignoto che inizia a assumere tratti familiari, del “l’ho fatto per davvero” che ristabilisce le giuste distanze, della consapevolezza che tra quello che sogno e quello che realizzo c’è di mezzo solo la volontà di costruire il ponte che unisce desiderio e risultato.

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L’incredibile vista verso sud da Capanna Margherita. Visibili il lago di Varese, il Maggiore, Milano e ampia parte della Pianura Padana. Sulla destra i pratoni di Alagna e la Val Sesia

Postilla “to be continued”

E mentre mi guardo intorno, riempiendomi gli occhi di pura bellezza, mentre addento una eccellente Pizza Margherita appena sfornata dentro al rifugio Margherita, mentre scendiamo a tutta velocità verso il Gnifetti, verso la mia famiglia, riguardo le cime che coronano questi ghiacci e già comincio a immaginare quella che posso fare per prima (la piramide Saint Vincent, direi) e quella che richiederà più tempo e più preparazione (il Corno Nero con la sua parete verticale da arrampicare, temo).

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COSE CHE HO IMPARATO

Innanzitutto il mondo si divide in due, solo in due. Sotto i 3000 m è per lo più verde e marrone, sopra è bianco e blu.

Sotto ci sono le città, le automobili, i centri commerciali, i capi-ufficio, le spiagge affollate e un sacco di stronzi che ogni giorno cercano di risolvere, o non pensare, ai loro problemi gettando merda in faccia al prossimo.

Sopra ci sono i ghiacciai, le cime su cui salire e quelle che si progetta di conquistare, i rifugi, il sole, il vento, le nuvole da tenere d’occhio, millecinquecento tipi di neve e ghiaccio diversi da imparare e quelli delle altre cordate con cui scambiare due chiacchiere e qualche sorriso quando li incroci. A volte il ghiacciaio può essere un posto molto vuoto e altre volte c’è affollamento pure lì sopra.

In secondo luogo ci sono i modi in cui la mente pensa e il corpo agisce, bisogna inventarsele di tutti i colori per raggiungere il flow. Di tanto in tanto mi riesce di afferrarlo grazie al triathlon, ma insomma poi ognuno ha la sua strategia, dicono che funzioni persino il tiro con l’arco. Sotto è optional, si vive bene anche senza a voler ben guardare, sopra invece è essenziale. Se non riduci tutto all’essenziale, se non riesci a concentrarti sull’istante, se non fai scattare l’interruttore che fonde la volontà con il movimento, sono guai.

Infine, c’è chi fa e c’è chi parla. C’è soprattutto chi critica chi fa e di solito sono quelli che non fanno proprio nulla. La miglior risposta è nei fatti, e se anche dopo aver dimostrato con i fatti continuano a rompere le palle allora la soluzione è cambiare gioco, trovarne uno più difficile, salire al piano di sopra e aspettare che ti raggiungano, sopra le nuvole e sotto al sole. Perché il sole in fondo te lo devi guadagnare.

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2 thoughts on “Capanna Margherita: il mio primo 4000

  1. Non so se farti più complimenti per l’impresa, per come l’hai raccontata o per gli “insegnamenti” che hai lasciato nelle ultime righe.
    Nel dubbio, te li faccio per tutto quanto!

  2. bel racconto, anche se non sono certo di aver compreso appieno le riflessioni finali … comunque bello, e scrivi piuttosto bene, in modo emozionante e crudo
    ciao

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