L'era del Ferro

Dal divano alla finish line

Non sei portato per la matematica

2 commenti

Sheldon

Ho fatto il Liceo Classico e ho sempre pensato che la matematica non facesse per me, dalla prima elementare fino al primo anno di Università, quando sono stato costretto ad applicarmi un po’ almeno per passare gli esami di economia e statistica. La Fisica invece l’ho sempre trovata interessante…e così quando non ho più avuto l’obbligo di studiarla ho cominciato a leggere prima testi divulgativi, poi più dettagliati. Ad un certo punto mi è stato chiaro che per tentare di afferrare l’eterea bellezza della teoria della relatività generale e le meno cristalline equazioni della meccanica quantistica dovevo ripartire quasi da zero e provare a cogliere almeno gli aspetti tecnici della matematica.

Così mi sono armato di pazienza e ho cominciato a leggermi questo gigantesco tomo da oltre 1000 pagine del grande Roger Penrose, un geniale fisico-matematico inglese (qui potete farvi un’idea delle due/tre cosine di cui si è occupato) proprio niente male anche come insegnante. Si intitola “La strada che porta alla realtà” e a parte farmi capire cose tipo che senza i numeri complessi non sapremmo spiegare il comportamento degli elettroni e senza la conferenza di Riemann sullo spazio curvo Albert Einstein non avrebbe potuto dirci perché la terra gira attorno al sole (fai presto a dire gravità), è illuminante su un aspetto fondamentale, che la maestra delle elementari avrebbe dovuto dirmi subito. La matematica, e la sua applicazione alla fisica, sia dell’infinitamente piccolo che dell’infinitamente grande – niente battute per favore – serve per descrivere la realtà in maniera molto più precisa, e mi verrebbe da dire più vera, di come la percepiamo noi, che ne abbiamo un’esperienza limitata e soggettiva innanzitutto perché vi siamo immersi. Magicamente, e non uso questa parola a caso, attraverso le idee invece possiamo superare la nostra “finitezza”, o se preferite provincialismo, e “vedere” da una prospettiva nuova tutto quello che ci sta intorno.

Era inevitabile che il metodo scientifico diventasse il faro degli studi e dell’applicazione come allenatore. A parte aver scoperto una vera e propria passione per la fisiologia ho scelto di fare un piccolo investimento in innovazione dotandomi di software che mi permettono di raccogliere e analizzare le tonnellate di dati scaricati dai GPS dei miei ragazzi. In questo modo è possibile progettare programmi di allenamento basati interamente su aspetti quantitativi, che prevedono di arrivare ad una certa gara con certi valori di carico, sapendo che con quei valori si otterranno certi precisi tempi e, ancora più bello, che un tal atleta funziona bene in un certo range di valori mentre un altro ha il suo miglior rendimento nell’intorno di cifre diverse. Non solo, misurare significa definire punti di partenza e poter fare comparazioni, ma soprattutto definire dove si vuole arrivare. Vuol dire sapere con precisione a che punto siamo con ciascuno in termini di VO2Max piuttosto che tolleranza lattacida o potenza aerobico-lipidica e così via. Non si fa niente a caso. Straordinariamente efficiente e straordinariamente rassicurante. Naturalmente servono gli strumenti di raccolta dati, con grande gioia di Garmin a cui faccio vendere tonnellate di strumentazione. La mia nuova passione sono i misuratori di potenza Vector ma di questo parlerò un’altra volta.

Comunque, non sono certo l’unico e non è che sia una cosa speciale, infatti non è questo il punto. I dati, l’analytical engine e i bei grafici colorati, varrebbero molto poco se in tandem nello scenario non entrassero due altri elementi: la comunicazione tra me e l’atleta e soprattutto la fiducia reciproca. Solo nell’ultima settimana è accaduto in almeno quattro occasioni che potenziali disastri siano stati disinnescati e addirittura trasformati in occasioni di miglioramento grazie a un semplice “sono stanco” o “ho avuto un giornata pesante al lavoro”. Individualizzare l’allenamento su riscontri oggettivi è corretto, ma anche il programma formalmente più perfetto diventa orribile se non si modifica giorno per giorno in base al feedback di chi lo deve eseguire. Insomma, credo che qualunque allenatore dovrebbe costruire i suoi progetti sulle solide basi della scienza ma io riesco a sentirmi  soddisfatto del mio lavoro soltanto quando guardando negli occhi il mio aspirante maratoneta o la debuttante Ironman riesco a cogliere nello sguardo e nelle parole, anzi nelle sfumature di ciò che dice o non dice, quello di cui hanno bisogno veramente.

Perché in fondo non ce ne faremmo proprio niente della relatività generale, della meccanica quantistica e della termodinamica se non ci fossero l’arte, la dignità che va riconosciuta all’unicità di ciascuno e la capacità di comprendere il prossimo, a incollare al nostro bisogno di infinito e di amore tipicamente umano tutte le formule che danno senso alla finita realtà razionale.

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2 thoughts on “Non sei portato per la matematica

  1. Ciao tutto molto significativo quello che scrivi…. Ma su questa mi sento un po’ in disaccordo… “sapendo che con quei valori si otterranno certi precisi tempi”…. Non sempre i valori portano a tempi precisi ci sono troppe variabile nelle gare di endurance per dire ciò è di questo anche tu dovresti esserne a conoscenza visto la tua esperienza sul campo!!… Per tutto il resto buon lavoro e buona preparazione

    • Infatti lo dico dopo aver portato un bel po’ di atleti al traguardo. Al netto di mal di pancia, forature e vento contrario. Of course 😉 Ma se non ci sono eventi esterni il tempo è molto molto predittibile avendo gli strumenti giusti. Che significa aver condotto la preparazione con i carichi corretti a quel fenotipo con quel valore di vo2max, soglia etc etc

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