Si è rotta lei poco prima che mi rompessi io. La mia adorata E114. Quell’orrendo rumore di ferraglia che mi ha appiedato dopo neanche 20 chilometri dell’Ironman 70.3 di Pescara, quell’attesa della vettura scopa per 2 ore sull’asfalto rovente, nero, appena rifatto e perfettamente liscio che è un peccato non averci corso sopra come si deve, il rientro tardissimo sul lungo mare e la voce dello speaker che snocciola i nomi di chi taglia il traguardo mentre io sono ormai irrimediabilmente sconfitto. Sono stati prima la causa scatenante dello psicodramma “cazzo il mio primo DNF” ma poi poco alla volta si sono rivelati essere esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Perché è vero che “la vita non è sempre liscia” ma è altrettanto vero che la liscezza quasi sempre è ingannatrice e a sedersi sugli allori prima o poi si finisce cotti a puntino. Meglio, allora, qualche calcio nel culo ben assestato al momento giusto, quanto basta a svegliarsi e tornare alle vecchie abitudini con le orecchie basse, la fame di fatica e il desiderio di tornare a correre veloce. Mi sono perso dentro ai traguardi raggiunti, messi in fila uno dietro l’altro, senza incertezze senza patemi senza più ricordarmi come ci si sente a non portare a termine la missione. Ho avuto l’illusione del controllo totale, di poter fare tutto senza rischiare nulla, di essere invulnerabile alla debolezza, alle tentazioni della rinuncia, alla fragilità fisica e mentale.
Sempre più sbilanciato sulle lunghe distanze e sempre meno attento ai segnali mandati da muscoli e tendini sono arrivato a Pescara con le gambe vuote e una grande stanchezza addosso. Eppure una volta indossato il chip il cervello ha fatto clic: nuoto niente male e poi via a tutta sulla mia compagna di viaggio lungo un percorso che nel 2014 avevo divorato in 2h50′. Arriva in fondo, prendi la medaglia, goditi il tempo e poi preparati a essere zombie per un mese. Sarebbe andata così, ero al limite e facevo finta di niente. E invece no, all’inizio della prima vera salita cade la catena, mi rifiuto di perdere tempo, cerco di tirarla su, si incastra tra il 52 e il 39, o cado o giro il pedale. Giro, la piastra del porta deragliatore si trancia a metà portandosi via un pezzo del telaio, il cambio vola via, la catena si attorciglia graffiando la forcella.
Non cado, almeno. Silenzio. Mi siedo e vedo sfilare 2000 persone. Respiro con la testa fra le mani, sospiro, respiro ancora. Ho sbagliato io ma forse era destino che quel componente cedesse. Meglio lui che me. Tradito dall’astronave con cui ho realizzato i miei sogni negli ultimi 3 anni. Tradito? Forse no, salvato piuttosto. “Se non ci fermiamo perché lo decidi tu allora prendo io il comando, ti fermo io” sembra avermi detto la Argon.
Impara a accettare che non sei invincibile, scendi giù, abbraccia i tuoi ragazzi che stanno portando a termine questo inferno di gara e poi consolati con una cena sulla spiaggia. Poi semplifica, azzera tutto, ricomincia dalle cose semplici: il cuore che esce dalla gola, i polmoni grandi come ciliegie, i muscoli che bruciano, il sudore negli occhi ma forse sono lacrime. Due mesi al Monte Bianco, tre mesi a Barcellona: “in tre mesi si fanno le rivoluzioni” – mi dicono. Lost and found per l’ennesima volta.
p.s. la foto non è di Pescara ma di Lerici, sei giorni dopo il fattaccio. Mi sono svegliato di sabato mattina pensando che lì avevo voglia di arrivarci in bici anziché in macchina. 130 km in 4h30′ e questo scenario come premio. Non di sole medaglie è fatta la felicità