Il cielo è plumbeo, a tratti piove, c’è decisamente troppo vento per fare il bagno e la muta non è affatto adatta per un rilassante bagno sulla riviera romagnola. Non c’è nulla di confortevole, in effetti, in questa prima frazione del Challenge Rimini numero tre, a eccezione del pensiero vagamente compiaciuto che sia stata una gran furbata tenermi tutto a sinistra rispetto al gruppo verso la prima boa, in compagnia di pochi intimi. E’ un attimo, il pensiero di scivolare dolcemente portato dalla corrente giusto giusto già in traiettoria per la seconda lontanissima virata, e arrivarci per davvero. Tutto facile, tutto veloce, troppo perché non ci sia un trucco dietro.E infatti basta girare l’ultimo angolo per rendersi conto che il tratto finale, quello che di solito è facile, sarà un tormento. Il gonfiabile blu e rosso appare sporadicamente tra le onde ma nonostante le braccia sbattano sull’acqua con più energia di poco fa rimane più o meno sempre laggiù, minuscolo e irraggiungibile. Mi servono 46′ di testarda insistenza per uscire da quel macello e tremante per il freddo saltare in groppa alla mia bambina di carbonio.
Via, lungo il percorso che conosco a memoria, con le sue due salite brevi e tagliagambe, gli strappi taglia respiro, i falsopiani maligni e la lunga, veloce, insidiosa, esaltante picchiata di 45 km fino al mare. I quadricipiti, messi in crisi dall’Ultratrail da 9 ore di 7 giorni prima, sulle prime non ne vogliono assolutamente sapere di collaborare costringendomi a auto-convincermi che non è poi questo dramma essere sorpassato da tutta quella gente. Vedo i pettorali che sfilano, categoria per categoria, l’evidenza che non solo non riesco a rimanere agganciato al mio gruppo ma che, ancor peggio, mi stanno prendendo quelli partiti dopo.
E pazienza, con la stanchezza che ho addosso dopo Volano, Dieci Colli, la Ride Across Appenino (da Viareggio a Cesenatico in 12 ore), e Ultra Trail dell’Orsa, oggi quel che viene viene – faccio finta di crederci, come se non sapessi che quando ho un pettorale e un chip addosso non riesco a accettare meno del massimo da me stesso. La pioggia che cada forte a tratti mi punge ovunque, il vento si insinua sotto il tessuto sottile della divisa Spartans gettando la pancia in subbuglio, un altro classico di questa gara per me. Va meglio dopo un po’, abbastanza per arrivare in zona cambio in 3 ore e 9 minuti sperando che le gambe possano reggere la mezza maratona.
“Ora viene il difficile”, mormoro mentre mi allaccio le scarpe, eppure il sole, la vista di facce amiche e la prospettiva del traguardo lì a due passi mi danno abbastanza energia da accelerare. Da 5’00” a 4’40” al chilometro, non male fino al 10°, poi comincia a confondersi tutto: le budella ritorte e la mancanza di glucosio nelle vene, l’orgoglio dell’animo e il bruciore ai polpacci. Rallento, rallento, mangio quanto riesco. Cinque settimane, cinque lunghissimi, è quasi missione fatta. L’ultimo chilometro è di nuovo veloce, 4’40”, ne ho ancora, ce n’è sempre ancora, devo ricordarmelo per la prossima volta.
Traguardo, medaglia e un lettino da spiaggia rosa su cui gettarmi. Finita.
p.s. la gara finirà un paio d’ore dopo, quando anche l’ultimo spartano, uno di quelli che stiamo portando al debutto all’Ironman di Barcellona chiude così la gara. Missione compiuta.