L'era del Ferro

Dal divano alla finish line

Di Maestri zen, battaglie quasi perse e sogni hawaiani

6 commenti

IMG_5447Non vado, le gambe non si sollevano, inciampo in ogni arbusto su per questa maledetta salita attraverso un prato che non finisce mai. Mi sembra di essere un’altra persona che sta facendo un’altra gara rispetto a come stavo 10 minuti fa. E’ veloce questa Ultrabericus, una trappola perfetta se non la conosci, che ti invita a girare forte per poi azzannarti ancora prima del 30° chilometro sui 65 totali.

Finalmente scollino, davanti a me almeno 2 km di asfalto serpeggiante tra le colline a sud di Vicenza, una fila di trail runner che procedono ognuno con il suo passo ma con una caratteristica in comune: mi stanno sorpassando tutti. Qualcuno mi chiede anche se ho bisogno di aiuto, scuoto la testa mormorando “no tranquillo sono solo finito – I’m done, penso, -ora mi ritiro”. Cerco di mangiare e bere giusto per non dovermi proprio fermare del tutto. Non c’è neanche un muretto su cui appoggiare il culo maledizione, mi tocca continuare a camminare.

Il ritiro, eventualità funesta da cui tutti gli atleti di endurance rifuggono persino il pensiero, mi è capitato solo una volta da quando ho cominciato a correre, nel 2012 alla mezza di Cremona. Stavolta sembra che non sarà tanto facile neppure chiamarsi fuori gara però. Un barlume di lucidità mi fa capire che dovrò raggiungere il rifornimento di metà percorso, saranno almeno 5 o 6 chilometri, e alla velocità attuale di 12’/km ci vorrà un bel po’ di tempo. Al primo punto di controllo ci sono arrivato dopo 2h50’, molto davanti, quindi ora ho probabilmente sette, ottocento atleti dietro di me che mi sverniciano a flusso continuo. Deprimente.

Soffro persino così, a camminare, è come se mi avessero sparato alle gambe, e le piante dei piedi mi fanno vedere le stelle. Ci provo a ripartire ma niente, dopo pochi passi devo rinunciare. Non sono mai stato combinato così male. Non c’è niente da fare, arrivo alla sosta e mi fermo, ho consumato troppo e sono scoppiato, fine della storia.

Bofonchio tra me e me mentre passo in rassegna tutta la lista di motivazioni possibili per continuare. Di solito mi fa bene pensare che non posso deludere i miei compagni di squadra, in tante situazioni mi ha tirato fuori dai guai ma oggi non sta funzionando. Amo il nostro team perché anche se facciamo uno sport individuale (che sia triathlon o running e quant’altro) in realtà funzioniamo come se giocassimo insieme: in allenamento e in gara, così come tra una sfida e l’altra, sappiamo di poter contare sul sostegno reciproco e ci motiviamo a vicenda. “Siamo uniti nella ricerca dell’impossibile”, per citare il grande allenatore NBA Phil Jackson detto “il Maestro Zen” per la sua originale filosofia di coaching, e questo è un legame profondo che permette a ciascuno di noi di andare oltre l’individualità per beneficiare della spinta eccezionale dello “spirito di gruppo”, è lo spirito degli Spartans, la ragione stessa per cui abbiamo fondato la squadra.

Distratto da questi pensieri rientro sullo sterrato quasi senza accorgermene, si sale un po’ poi inizia un vallonato molto dolce, il fondo è bello, quasi quasi provo a corricchiare. Prima arrivo alla sosta e prima metto fine a questo supplizio. Ma questa volta anziché dichiararmi sconfitto dopo pochi metri vedo che riesco a correre: 500 metri, poi 1 km, e all’improvviso mi ritrovo a superare gente a manciate. Al 37° km timbro il passaggio qualche secondo prima che scocchino le 5 ore. Neanche malissimo.

Evidentemente il recupero, l’idratazione e l’alimentazione hanno ripristinato le energie e sebbene non sia certo in condizioni perfette ad un tratto penso che proprio non ho voglia di chiuderla qui, che non ho voglia di trovare delle scuse per spiegare i motivi del ritiro, che non ho voglia di non essere orgoglioso di me e che questo percorso è troppo bello, il cielo troppo azzurro, l’aria troppo profumata di primavera perché non me lo goda. E ancora penso che non sono il tipo che si rifugia nella scelta più facile, che si piange addosso, che incolpa altre persone o altre cose dei propri insuccessi. Potevo scegliere di non partire con una storta alla caviglia rimediata giovedì sera e un’influenza stronza a debilitarmi, e invece ho scelto di mettermi in gioco. Allora sai che c’è, mi dico? Io non lo prendo un pulmino per tornare a Vicenza. Dal buco del culo del mondo in cui sono finito mi ci tiro fuori da solo.

Ci arrivo al traguardo alla fine, in 9h43’, divertendomi anche grazie alla compagnia di tanti amici vecchi e nuovi incrociati lungo il sentiero. Chissenefrega del tempo e della prestazione, la cosa davvero importante è aver imparato che per uscire dal buio non serve a niente cercare di dimostrare qualcosa agli altri e al tempo stesso neppure essere completamente rivolti verso noi stessi. Non sono in antitesi questi due atteggiamenti, anzi sono due modi di essere egoisti, ovvero di mettere al centro noi stessi. Serve un equilibrio virtuoso, un magico bilanciamento tra le motivazioni intrinseche (la voglia di riuscirci solo perché ci rende felici l’idea, la gratificazione per il semplice fatto di riuscire a fare qualcosa) e la forza che solo la sensazione di essere inserito in un progetto più ampio, fatto di legami affettivi straordinariamente profondi può darti. Avanti tutta, verso Ironman Barcellona, tutti insieme, dove ognuno correrà per se stesso sapendo di non essere solo. Ognuno con la sua ragione. La mia si chiama Kona, dovessi impiegarci vent’anni a raggiungerla.

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6 thoughts on “Di Maestri zen, battaglie quasi perse e sogni hawaiani

  1. Meraviglioso leggerti. Sei un grande!

  2. posso solo dire tanti, tanti complimenti. quasi dieci ore sulle gambe.

  3. ora ho collegato tu sei tower77pr.
    sono proprio sul pezzo

  4. (twitter) nino67_mi

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